DJIBOUTI, 365 ricordi dopo
È di nuovo inverno, anche se fa un po’ ridere dirlo qui a Gibuti; è cioè la stagione delle piogge, molto breve ma con temporali improvvisi e grandi quantità d’acqua a secchiate convinte, un po’ dove capita. Gli ued sulle colline si riempiono subito e conducono fragorosamente a valle acqua e fango. In città non esiste un sistema di scarico con tombini e alcune zone sono addirittura sotto il livello del mare anche se di poco. Il risultato è l’allagamento delle strade per giorni e giorni, l’invasione di milioni di mosche e zanzare e il propagarsi di piccoli malanni di stagione come influenza, gastroenteriti, tifo e colera.
Tutto questo mi fa sorridere mentre osservo il nuovo corso dato al problema della pulizia urbana; di recente è stato costruito un inceneritore che risolve in parte lo smaltimento dei rifiuti prodotti dalla città (dell’inquinamento derivante non ne parliamo). La città appare più pulita e sicuramente è meglio di prima, quando s’accendevano falò lungo le strade dove venivano ammassati i rifiuti. Ci sono sempre le solite signore che spazzano le strade e anche i camion che raccolgono i mucchi di rifiuti ma, da un po’ di tempo, c’è una novità. Ci sono decine di nuovi camion, di color arancio sgargiante, che fin dal mattino presto percorrono la città, con spazzini a bordo, raccogliendo i rifiuti da terra; la cosa divertente o assurda o forse pazzesca e che mentre girano lentamente guadando strade e stradine allagate, diffondono musica, ma non musica qualsiasi. Diffondono poche note, tipo jingle elettronico, che appena finite ripartono dall’inizio, come i vecchi carretti dei gelati. Beh, la cosa pazzesca è che suonano l’inno nazionale del Giappone!
Il governo giapponese, in cambio di permessi di pesca nel Mar Rosso, da alcuni anni cerca di attuare programmi di cooperazione allo sviluppo a Gibuti; l’ultima novità è stata la donazione di questi camion. Io non so se anche in Giappone i camion giapponesi dell’immondizia giapponese suonino l’inno nazionale o se sia invece una tecnica adottata solo a Gibuti per farsi conoscere associando rifiuti e inno nazionale; non so neppure con quali risultati o riflessioni finali. So solo che sono già stufo di ascoltarla come sveglia ogni mattina all’alba. L’unica cosa che ancora mi fa ridere è immaginare altri camion che suonano God save the Queen, Deutschland über alles, la Marsigliese o Fratelli d’Italia mentre raccolgono rifiuti nei rispettivi Paesi. Che sia l’inizio di un nuovo contro-nazionalismo con grande sense of humour? Temo sia solo un mio desiderio. In ogni caso l’azienda urbana manda i camion perfino nella baraccopoli, vicino alla Scuola Miriam. Questo è un bene, così almeno tutto sembra migliore (sembra). In ogni caso, rifiuti e inni nazionali a parte, oggi, 9 dicembre, è un grande giorno: è il primo compleanno della nuova Scuola Miriam!
Non mi è facile non scivolare sulla bucce di banana della retorica; e qui ce ne sono tante di bucce di banana per terra, mentre la retorica di solito abita in Paesi più ricchi. Preferisco allora ricordare a me stesso, in rigoroso ordine sparso, le tappe di questo viaggio non ancora finito; anzi più che le tappe preferisco rivivere sensazioni dentro alcuni paesaggi oppure i paesaggi pieni di emozioni. Come sempre ci va il caldo rovente, umido, abbrustolente: è la scenografia base senza la quale tutto il resto semplicemente non esiste. C’è il caldo del dialogo durante le riunioni nella baraccopoli, seduto sulla stuoia a parlare con il preside, i genitori e gli anziani del quartiere per discutere della scuola da costruire, definendo i dettagli, con l’ansia nel rendersi conto che stava davvero per cominciare tutto. Aggiungo il caldo delle camminate sui ciottoli e le pietre, con Moussa, per conoscere per la prima volta la vecchia scuola di lamiera. Era un caldo carico di sudati punti interrogativi. Poi l’incontro con il preside e la prima visita nelle aule, con gli occhi che, mentre si abituano alla luce più scarsa, rivelano decine di bimbi seduti su grezzi banchi di legno con pochi quaderni e molte mosche. Dal caldo passo al mare: dal Mar Mediterraneo, poi attraverso il Mar Rosso giungo all’Oceano Indiano. Oceano di carte su cui navigare tra l’Italia e Gibuti (e ritorno), mentre atti in carta da bollo, tasse, iscrizioni, notifiche, permessi e convenzioni compongono pian piano una mappa su cui c’è già una X che segna il punto dove scavare le fondamenta della nuova scuola. Sento sempre il freddo dei numerosi viaggi fatti in inverno da Bologna a La Spezia con tanti amici, per portare arredi e altro materiale da spedire via nave: tanti viaggi ma anche tanti amici intorno a un tavolo di cucina ligure prima di rientrare. E poi finalmente ricordo l’anno scorso: dopo aver scaricato un polveroso e bollente container pieno di banchi e lavagne davanti alla nuova scuola, si prepara una semplice cerimonia d’inaugurazione, invitando i “vicini di casa” delle baracche intorno, le cariche pubbliche e gli amici.
Qualche discorso in somalo e in un francese emozionato, (perché tutto sta accadendo davvero), fatto dal preside, dai genitori, da Miriam e da me; poi una breve visita alle nuove aule e un rinfresco con pochissime bottigliette d’acqua minerale e improbabili bibite gasate.
Ma l’ultima sensazione di quel giorno l’ho sempre presente, anche perché l’avevo preparata prima: mentre tutti escono per rincasare, salgo velocemente le scale che portano sul tetto della scuola visitato poco prima. Sono solo. Estraggo il mio coltello dalla tasca, poso a terra il mio zainetto da cui prendo una birra ghiacciata portata da casa, la stappo con il coltello, ne bevo un lungo sorso sotto il sole delle 14.00, ne verso un po’ in onore degli antenati ai quattro punti cardinali e, mentre la finisco, auguro il meglio a tutti i bimbi e agli insegnanti che useranno le aule sotto di me.
P.S. Per una volta, mi sono anche detto bravo da solo.