DJIBOUTI – Il cambio (parte I)

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Oggi sono in viaggio ma, non guidando io, posso rilassarmi osservando il mondo fuori dal finestrino. Stiamo lasciando Djibouti Ville dallo stradone dopo l’aeroporto.
Lo sguardo mi cade su un gruppo di donne che indossano, sopra i loro abiti già sgargianti, un gilet giallo ad alta visibilità, guanti da lavoro e sul viso una mascherina antipolvere. Alcune, completamente velate tranne gli occhi, portano la mascherina sopra il velo; sono sul ciglio del marciapiede e con scope e ramazze tentano di pulire le strade, sollevando, in realtà, nuvole di polvere mentre ammonticchiano collinette di rifiuti.
Poi passerà un furgoncino, ovviamente guidato da un uomo, per raccogliere i frutti di un lavoro di cui non si noterà la differenza tra il prima e il dopo.
Qui non ci sono né inceneritori né oasi ecologiche, anche se svariati quadrupedi come gatti, cani, capre, asini e dromedari, altrettanti bipedi come le cornacchie e i bimbi di strada, si adoperino nello smaltimento e nel riciclo.
Le netturbine sono una novità da qualche anno: il Governo, infatti, sta cercando di migliorare alcuni aspetti di facciata, anche se si sa che queste coloratissime operatrici ecologiche non sono pagate regolarmente.

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Sono in cabina, su un veicolo dello SMUR 19, e al volante c’è l’infermiere adjutant, grado militare pari circa a un maresciallo o a un caposala in ambito sanitario.
Mi ha invitato al giro della relève, cioè del cambio equipaggi. Usiamo come pulmino un vecchio furgone Mercedes regalato dai tedeschi, che in realtà è un’ex ambulanza militare alleggerita delle originarie barelle sovrapposte. All’esterno è stata ridipinta di bianco, fornita della scritta bianca SMUR 19 su banda rossa ma, all’interno, ha conservato tutte le scritte in tedesco sui vari comandi della cabina; non è grave, il somalo e il tedesco sono entrambe lingue gutturali e aspre.
L’infermiere adjutant, di nome Soùber e di origine issa, cioè somalo, vuole che veda la loro organizzazione, le altre postazioni, il territorio di copertura di ogni ambulanza e vuole anche presentarmi agli equipaggi che non conosco ancora.
Mi aveva dato appuntamento per le 8.00, è arrivato a prendermi alle 8.40 e, con gli equipaggi montanti, siamo finalmente partiti dall’Ospedale Balbalà circa un’ora dopo. Siamo in Africa ed è normale che gli orari siano per così dire… trattabili. D’altra parte qui nessuno protesta se il cambio arriva 5 minuti in ritardo: ogni équipe, formata da autista, infermiere professionale e soccorritore, si fa turni continuativi di 15 giorni di servizio e 5 giorni di riposo.
Quindi, al quindicesimo giorno, l’orario del cambio è l’orario in cui il cambio arriva e non il contrario.
Nel vano alle mie spalle sento che i nove uomini delle tre équipes, in divisa da fatica e anfibi, chiacchierano e ridacchiano. Oltre ai loro zaini personali hanno ammassato alcuni sacchi di riso, farina, lenticchie e qualche bottiglia di olio di semi: parte delle provviste per il loro turno.

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Il primo posto che troveremo è in un distretto a 40 km da Djibouti Ville e si chiama Weá.
Ci lasciamo lentamente alle spalle Balbalà, ovvero i 300.000 “sopravviventi”, della baraccopoli, che qui preferiscono chiamare le quartier, il quartiere, e il paesaggio a poco a poco cambia.
Baracche di lamiera, carcasse d’auto, rottami di ferro, sacchetti di plastica e rifiuti; banchetti di vendita, capre, bambini, canali di fogna, donne; cani randagi, uomini, cornacchie, minibus, carretti con asinelli e fuoristrada della police. Tutto mescolato, odoroso e sonorizzato dai clacson. Tutto via via si stempera in collinette rocciose, cespugli, acacie, un dromedario, qualche uadi di fiume in secca e, finalmente, silenzio.
Ogni tanto, su qualche spianata ai lati, vedo gruppi di camion con rimorchio fermi in sosta. La strada conduce fino a un bivio che verso nord-ovest sale per l’Etiopia e verso sud per la Somalia. I camion, tutti etiopici, caricano dal porto di Djibouti merce di ogni tipo arrivata via nave e arrancano verso Addis Abeba per centinaia di chilometri.
Gli incidenti stradali sono per lo SMUR 19 la seconda causa di chiamata, dopo quella per gravidanza, e i gibutini ne danno sempre la colpa al 100% ai camionisti etiopi.
Sarà, ma l’ultimo sorpasso che ha fatto il mio amico al volante, mi fa ridistribuire sia le percentuali di colpa sia gli accidenti che lancio equamente a tutti gli autisti di Gibuti e d’Etiopia.

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Saliamo piano di quota e accumuliamo tornanti con vista su autotreni precipitati più in basso e finalmente arriviamo a Weá, villaggetto a 500 metri di altitudine, con forse 600 abitanti. La postazione SMUR è una casetta in muratura bianca e azzurra, con tanto di portico per il Land Cruiser ambulanza.
Scendiamo e mentre gli equipaggi si salutano, visito la sede. La prima stanza, sempre bianca e azzurra, col pavimento di mattonelle sbrecciate, è la più grande e funge da zona di sosta e sala radio: poche sedie, un tavolino su cui sono ormeggiati in un groviglio di cavi elettrici, la radio fissa, un telefono con fax, spento, e un piccolo televisore. Alcune carpette macchiate contengono tutta la burocrazia: schede di ricezione chiamate, archivi e poco altro. Sul muro sono affissi con nastro adesivo fogli con procedure, diagrammi di flusso, frequenze radio, turni e note di servizio. In un angolo sono appoggiate in verticale parecchie polverose barelle di tela e più in là, sul pavimento, materiale vario. Nella stanza c’è perfino una moto enduro parcheggiata: è del vicino ambulatorio, usata dall’infermiere che fa le vaccinazioni sulle colline. Sotto una finestra, su una barella spinale sdraiata a terra, c’è anche il casco. La prima impressione è di caos e sporco ma non è così; sono i miei occhi che mi tradiscono, ancora abituati alla sovrabbondanza di scaffali, armadi, archivi disposti secondo rapporti di spazi e logiche precise occidentali. Qui, per ora e chissà per quanto, semplicemente non ci sono scaffali né armadi né archivi.

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Ricordo a me stesso questo concetto ed ecco che ciò che vedo appare ora essenziale, disposto con un suo ordine, anche pulito.
Dalla sala radio un corridoietto porta ad altri ambienti. C’è una toilette con wc, lavello e perfino una doccia, tutto assai malridotto ma, qui, un vero lusso. Su una porta un foglio riporta scritto a mano chambre de troupe: è la camera per la sosta notturna, contiene solo tre letti e dei ripiani in cemento.
Un’ altra stanza è per la reculation, o zona studio e relax, ma dentro non ci sono libri per aggiornarsi o computer con ADSL per studiare o navigare sul web, non contiene nulla se non delle stuoie sul pavimento. Qui, se non ci sono chiamate su allarme o cose particolari da fare, ci si siede appoggiati al muro per fumare e chiacchierare, masticando le foglie di khat secondo l’uso di queste zone. Per ultima vedo una piccola cucina con lavello e un fornellino a gas per i pasti. In ogni postazione come questa c’è sempre una donna del villaggio, assunta per pulire gli ambienti, preparare i pasti e lavare la biancheria e le divise dell’équipe. Ogni infermiere o autista ha un paio di anfibi e due divise a tuta intera: una azzurrina con strisce alta visibilità, la vera tenuta SMUR, e un’altra che è una tuta militare da lavoro. La signora viene pagata, al mese, 18.000 franchi cioè circa 68 euro. Autisti e infermieri, secondo il grado militare che raggiungono, guadagnano dai 45.000 ai 65.000 franchi al mese, quindi dai 170 ai 245 euro circa. Di questi soldi una certa parte se ne va nel khat, monopolio dello Stato, ma questa è un’altra storia.
Soubér, da bravo coordinatore, deve effettuare vari controlli insieme all’infermiere chef dell’équipe. Il viaggio sarà ancora lungo, così, per dovere d’ospitalità, mi obbliga a riposarmi per un po’ nella chambre de troupe. Ne approfitto per annotarmi sul mio taccuino tre cose sulle quali riflettere ogni tanto: quanto sono lunghi quindici giorni in turno d’ambulanza seguiti da cinque giorni di riposo, come possono sembrare poco o molto cifre tra i 68 e i 245 euro al mese e cos’altro vedrò in questo viaggio.

(parte 2)

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