DJIBOUTI, Vicini di casa in un posto sbagliato

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Scrivevo tempo fa che «non è facile spiegare e comprendere come una gran parte di quelle circa trecentomila persone di Balbalà riescano a vivere». Provo a spiegarlo meglio; tra quei trecentomila ci sono, infatti, anche i genitori degli alunni della Scuola Miriam, gli insegnanti e il preside con le loro famiglie. Tra loro che, nonostante i gravi problemi quotidiani, s’impegnano a mandare i figli a scuola, sono rappresentati un po’ tutti i livelli di vita e sopravvivenza: dal «naufragare e scampare» alla relativa tranquillità data da un impiego fisso di almeno uno dei familiari che riesce a mantenere, alla meglio, i congiunti senza lavoro. Per chiarezza: quando dico «famiglie», intendo nuclei familiari estesi anche a fratelli, sorelle, cugini e via dicendo, che, per consuetudine, senso profondo della famiglia e necessità, mantengono legami molto stretti tra loro.

Così come per le persone, anche per gli edifici della baraccopoli Balbalà esistono diversi livelli architettonici di “ceto sociale”. Una delle entrate dalla strada principale che arriva dalla città distante 12 km è il Punto Kilometrico 12 (PK12) da cui il nome del quartiere.

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La prima volta che percorri tale entrata non puoi credere a quello che vedi: senza giri di parole, sembra un unico mucchio di spazzatura. L’occhio non trova i riferimenti abituali: non vede strade, vie asfaltate o marciapiedi. Non vede costruzioni regolari in muro intonacato con negozi e uffici, niente piazze con giardinetti o cose così. L’occhio è invece sconvolto dal vedere ovunque parallelepipedi di assi di legno, ferro o cemento, con mucchi di detriti sparsi intorno, merci o sacchi accatastati e, nelle buche dell’asfalto superstite, ogni genere di rifiuti. Mentre il cervello è continuamente sbatacchiato dalle gamme dei colori diversi e dal movimento fluido di numerosi veicoli, migliaia di bimbi, persone adulte e capre che, tutti insieme, squassano l’aria di polvere, puzza e rumore.

Inizialmente non puoi credere che quello che vedi sia il quartiere di un centro abitato; poi lentamente, grazie alle insegne e alle merci esposte, cominci a riconoscere alcune strutture: piccoli empori di alimentari, drogherie, ferramenta o botteghe di artigiani come fornai, falegnami, fabbri o pittori di insegne (come il nostro per la scuola). Riconosci anche i minuscoli chioschi che vendono frutta o il khat e i ristoranti con i tavolacci sotto le tettoie. Dopo un po’, se sei attento, è abbastanza facile individuare anche gli edifici pubblici del Comune, il posto di polizia, un piccolo centro sanitario e magari anche i tecnici del telefono o della luce che installano impianti, sempre più diffusi anche qui.

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Bene, questa era la parte bella di PK12 e, se proprio non ce la fai, basta guardare ogni tanto in alto il cielo azzurro per darti una tregua. Ma per vedere un livello architettonico più basso è sufficiente addentrarsi, magari a piedi, e ritoccare in peggio i fotogrammi già impressi: le “case” ricordano castelli di carte in fogli di lamiera o legno, bastanti a delimitare una stuoia. Niente negozi e neppure chioschi: si vende per terra. Le strade pseudo asfaltate di prima, sono sostituite da viottoli di terra secca con al centro rigagnoli di liquidi maleodoranti o profonde pozze che, oltre ai rifiuti, raccolgono in questo periodo acqua piovana e secchiate di mosche e zanzare.

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In tutto questo allora la gente che nasce in un posto sbagliato come fa? Fa. Fa che ci nasce, ci vive meglio che può, ci muore, punto. Ma in mezzo c’è che la gente, per vivere, deve inventarsi dei lavori o sfruttare quello di cui c’è bisogno.

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Per esempio alcune mamme vendono sulla strada delle taniche usate: tutto il giorno fanno km a piedi per comprare dai ristoranti, o dai forni, questi contenitori di plastica vuoti che contenevano olio alimentare. Comprano all’equivalente di un nostro euro per rivendere a 1 euro e 50. Un lavoro simile lo fanno anche i papà: cercare e rivendere le bottiglie vuote di plastica dell’acqua minerale, sempre per pochi centesimi. Altri s’improvvisano “tecnici” e ricondizionano pezzi meccanici come i radiatori, pulendoli a mano e vendendoli a chi cerca “ricambi d’occasionissima”.

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Spesso, però, lavoro e vita sociale s’incrociano con la solidarietà o, come la chiamo io, con la fratellitudine. Qui vige la regola che il vicino è sacro, anche se non è tuo parente o del tuo clan. Ecco un esempio: un mio vecchio amico di PK12 sta economicamente un po’ meglio di altri, avendo un lavoro regolare e una casetta in cemento su un terreno di sua proprietà. Tra i suoi vicini c’è una mamma rimasta sola con due figli, il cui unico reddito viene dal fare un lungo viaggio al mercato della capitale, acquistare un po’ di frutta e verdura e rivenderla in un misero chiosco. Non solo, per poter vendere, la donna deve pagare una licenza e una tassa per l’uso del suolo al Comune. Quindi, d’accordo con la propria famiglia, il mio amico le concede gratis lo spazio per il chiosco sul suo terreno. Conosco bene il mio amico e so che non lo fa solo per dovere di buon vicinato, lui crede sinceramente nella fratellitudine reciproca.

Un altro esempio? Mohamed Preside conosce ormai tutte le famiglie che abitano intorno alla nuova Scuola Miriam. Un giorno Omar, un suo conoscente, gli ha parlato di suoi vicini con gravi problemi: il capofamiglia, lavorando come manovale, si era infortunato gravemente alla schiena ed era immobilizzato da un mese, mentre la moglie e i suoi bambini stavano soffrendo la fame. A quel punto il preside e Omar hanno bussato alla porta di circa ottanta famiglie dei paraggi per chiedere un aiuto qualsiasi; nessuna delle ottanta porte (di quei “castelli di carte” senza acqua e luce detti altresì tuguri o baracche) si è chiusa senza far uscire prima la fratellitudine. Secondo possibilità tutti hanno donato, chi da 1 a 5 euro, chi un sacco di riso o di farina, e ora la situazione è migliorata. Tutti sono consci di potersi trovare a loro volta nella stessa condizione.

Balbalà è probabilmente un posto sbagliato dove nascere, ma i vicini di casa sono quasi sempre quelli giusti.

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4 pensieri riguardo “DJIBOUTI, Vicini di casa in un posto sbagliato

  • 29 Gennaio 2016 in 20:59
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    Sono napoletano,  ho rivissuto sensazioni della mia infanzia nel racconto di Stefano.
    Nei vicoli,  nei palazzoni seicenteschi non ricordo mai porte chiuse, il vicoletto ,  il ballatoio erano il corridoio di casa ed il vicinato una  grande famiglia . Era naturale condividere tutto : gioie, dolori, malattie ed ottimi pranzi con i vicini,  spesso si imbandivano tavoli nel vicolo o nelle “aree comuni”  condominiali.
     Anche il concetto di convivenza allargata era molto in uso,  la zia zitella ,  la nonna vedova,  lo zio scapolone,  si prendevano in casa “pecchè nun pò sta sulo”.
    Non c’era un matrimonio al quale non prendevano parte attiva i vicini di casa,  dall’organizzazione  della  festa ai festeggiamenti stessi. Spesso si cresceva convinti (e mi è capitato) che una vicina di casa fosse parente perchè fin da piccoli la si chiamava zia.
    Il termine fratellitudine rende  in pieno il senso afronapoletano del sentimento,  non dimentichiamo che il concetto di  “sospeso”  lo hanno inventato a Napoli , il  caffè pagato in modo anonimo  all’estraneo che mai conoscerai, perchè nessuno si senta mai così povero da non potersi permettere un caffè. Il Principe de Curtis  svegliava in piena notte il suo autista per andare a infilare ,  in modo anonimo, qualche banconota sotto le porte dei bassi della Sanità.
    Ho letto da qualche parte  che Napoli è l’unica  grande città africana che non ha un quartiere europeo; perciò sentirmi apostrofato da qualcuno come   africano,  per uno come me che ragiona da Napoletano,  che pensa e sogna nella propria lingua, credetemi è un complimento.  Finchè nella baraccopoli di Balbalà  e nel bar di Napoli si respirerà la stessa solidarietà songo africano pur’io!

    • 30 Gennaio 2016 in 9:14
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      Grazie, Giuseppe, amico mio, per il tuo bellissimo commento. Io, pur di origine meridionale, nato e cresciuto nel nord Italia, non ho vissuto la fratellitudine a un livello tanto bello e intenso come è stato per te. Grazie perché stai testimoniando che anche in Italia c’è un sentimento afronapoletano di fratellitudine!

      • 5 Febbraio 2016 in 16:02
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        Proprio così, caro Stefano! l’altro ieri siamo andati a visitare la scuola con Miriam e altri, è proprio carina e c’erano tanti bimbi che cantavano per noi che non si riusciva più a farli smettere. Anche il direttore sembrava contento, e ci credo…comunque congratulazioni per il lavoro fatto.
        Vito e Lucia

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