DJIBOUTI, Siete tutti uguali!

A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone. Se pensate come un dato assoluto,
le culture divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di razzismo.
Ogni identità è fatta di memoria e oblio. Più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire.

Marco Aime

Ognuno di noi ha un modo preferito di svegliarsi e ricollocarsi al proprio posto nel mondo ogni mattina.
A volte il modo preferito è soltanto auspicato, perché è il mondo stesso, o la vita, che pensa a svegliarci e ricollocarci. Ma, in fondo, come accada a me poco importa, anzi spesso mi  diverte. Ero riuscito a dormire qualche ora di seguito, senza svegliarmi per il caldo che gocciolava dalle pareti, oltre che da me; alla prima luce mi ero poi destato per i soliti corvi sul tetto di casa, convinti, a modo loro, di cinguettare. Il carrozziere di fronte (più scultore che carrozziere) aveva già ripreso a martellar lamiere a ritmo polifonico, insieme ai corvi e ai clacson dalla strada: CRAA BEEP CLANG, CRAA BEEP CLANG!

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Buongiorno, vasti silenzi d’Africa! Dove vi ho perso?
In tutto questo l’unica mia alleata era la brezza che portava buone essenze dal mare lì dietro, ma invano, perché non riusciva a coprire l’odore delle solite fogne intasate dalla recente alluvione. Comunque, prima di uscire, anzi, per poter uscire e per poter rimanere in piedi sotto al sole, mi ero bevuto una moka da sei di caffè etiope. Ero poi sopravvissuto al traffico durante il tragitto in pick-up da casa all’ospedale.
La giornata, insomma, non era iniziata male tra i modi possibili che un volontario in servizio potesse desiderare, almeno secondo me. Mi trovavo dunque in ospedale, nello spiazzo adiacente al magazzino, vicino ai vari reparti. Avevamo sdoganato giorni prima parecchio materiale arrivato via nave (in donazione tramite l’Onlus) dall’Italia; con Soubèr, il mio amico coordinatore, stavamo scaricando e suddividendo quanto ci era stato consegnato con vari camion la mattina stessa. Erano arrivati, oltre a vari carrelli e armadi, molti letti articolabili da degenza; usati ma in buono stato, li aveva donati un’azienda sanitaria italiana che per sé ne aveva acquistati di nuovi, comandati elettricamente. Per l’ospedale Balbalà era stato un dono eccezionale visto che i letti ospedalieri costano tantissimo.

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Siamo quindi lì a sudare sotto il sole quando, a un certo punto, noto che s’avvicina un tizio uscito dalla radiologia, con le sue lastre sotto il braccio, così senza busta: l’ospedale non ha i soldi per i letti, figuriamoci per le buste. Costui osserva per un po’ noi e le operazioni di scarico; poi, rivolgendosi a me, comincia a dire qualcosa in somalo. Ne percepisco il tono un po’ aggressivo, ma ovviamente non capisco. Un po’ stupito provo a chiedergli in francese di dirmi cosa succede. Soubèr mi traduce al volo che quello vuol sapere da dove arrivano gli armadi e i letti. Allora, visto che il francese lo capisce, gli dico che i letti sono una donazione estera. Sentito ciò, il tizio, ostinatamente in somalo, mi dice qualcos’altro con tono ancora più alterato.
Soubèr, mentre inizia a sogghignare,  mi traduce:
«Voi bianchi dovete smetterla di mandarci la vostra spazzatura!».
«Ma non è spazzatura» dico io. «Sono solo usati!».
Allora Tizio (tradotto da Soubèr, che se la ride): «Appunto, spazzatura!».
Io, sperando di smorzare: «Guardi che non sono un francese (vostro ex colonizzatore), sono italiano».
Tizio (Soubèr ha le lacrime agli occhi): «Francesi, italiani, cinesi, tedeschi, giapponesi o americani, voi altri siete tutti uguali, tutti venuti qui a romperci le palle!».
Allora comincio a ridere anch’io un po’ imbarazzato e dico a Soubèr: «Smettila di sghignazzare e traduci che forse c’è un equivoco. Sta sbagliando bersaglio, io sono qui con una Onlus per volontariato, per aiutare l’ospedale!».
Tizio: «Ma allora i materassi dove sono?».
E io: «I materassi non ci sono, ti ho detto che siamo un’Onlus mica una banca!».
Tizio si gira e andandosene (con Soubèr ormai piegato in due): «Siete tutti uguali!».
E io: «Ok, la prossima volta spedisco anche un materasso usato tutto per te!».
Quando abbiamo smesso di ridere ho chiesto a Soubèr chi diavolo fosse quel tizio. Non pretendevo una risposta, naturalmente. Infatti, unendo le mie alle sue ipotesi, si andava dallo squilibrato al gibutino razzista o al leghista somalo (esistono!)… ammesso che queste mie classificazioni estemporanee abbiano un senso. Molto più semplicemente, dall’aspetto poteva essere uno dei tanti gibutini ricchi: molti di loro, non fidandosi dei centri sanitari in città, vengono all’Ospedale Balbalà, considerato migliore per la qualità degli operatori, pur essendo perennemente in difficoltà economiche e incuneato nella baraccopoli. Poi, come tanti benpensanti del luogo, se fosse stato interrogato in merito, avrebbe facilmente negato perfino l’esistenza stessa di una baraccopoli o di suoi concittadini con seri problemi di sopravvivenza. Non li vede, consciamente o inconsciamente, come succede a molti in tanti altri paesi. Forse i miei letti usati mandavano un po’ in crisi la sua visione del mondo. Ma ciò che mi ha divertito e più tardi mi ha fatto pensare a mente fredda (anzi fresca perché, essendo qui troppo caldo, alla mente fredda non si arriva mai) è stato l’essere classificato da quel tizio polemico all’interno di un’identità.
Mentre osservavo il tramonto che mi riconciliava in parte con i miei perduti silenzi d’Africa, ripensavo a quel «Siete tutti uguali!», sancito come un colpo di timbro su un qualsiasi documento d’identità, vera o presunta. Era chiaro che per signor Tizio io, così diverso dalla sua apparenza, rientravo in una identità comune con francesi, tedeschi e altri «diversi» (da lui). Signor Tizio ha visto, insomma, una parte della mia identità, ma non il mio essere individuo, che eventualmente potrebbe non far parte di quel gruppo di «tutti uguali» arrivati a Gibuti a rompergli le scatole.
In fondo l’identità, che sia ricevuta con un documento pieno di timbri alla nascita o acquisita crescendo all’interno di un qualsiasi gruppo, può essere una comodità: la indossi come un abito ed è tua; un po’ come, forse, crede di poter fare Salvini quando si mette una nuova felpa con il nome della Regione italiana in cui vuole raccogliere consensi.
Alla fine sono convinto che di reale ci siano solo le singole persone, mentre l’identità «è fatta di memoria e oblio». La memoria di una identità resta nelle persone finché, volente o nolente,  non subentra l’oblio dato dai cambiamenti della Storia.
L’identità non può più rimanere ferma come una pietra o, peggio, essere scagliata contro le altre. L’identità «più che nel passato va cercata nel suo costante divenire».
Ecco perché, alla lunga, sarebbe bello liberarsi del concetto di identità per passare a quello più fluido di appartenenza. Al genere umano.

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