DJIBOUTI, Lo sbirro violento e il burocrate cortese
There was a big high wall there that tried to stop me;
Sign was painted, it said private property;
But on the back side it didn’t say nothing;
This land was made for you and me.
C’era un gran muro che cercava di fermarmi
e sopra c’era una scritta, Proprietà Privata
ma dall’altra parte non c’era scritto niente
questa terra è fatta per te e per me.
Woody Guthrie, This Land Is Your Land
Penso che l’atto di comprare un terreno infligga due ferite: la prima ferita è arrecata alla Terra stessa, sezionata nella sua unità. La seconda ferita è inferta alla libertà dell’uomo che l’acquista, di rado consapevole di questa perdita.
Non so se i somali e gli afar che abitano oggi la baraccopoli di Balbalà la pensino come me ma un tempo erano nomadi. Quindi, da nomadi che non concepiscono di comprare la terra, si sono sempre spostati liberamente dove speravano di trovare condizioni migliori; per esempio alle spalle della città con il grande porto e lungo la costa. Là ogni famiglia ha occupato solo il posto necessario a srotolare la propria stuoia più grande, per poi cingerla con quattro pareti di un qualsiasi materiale di scarto, per sempre provvisorio. Che poi, purtroppo, la maggior parte non sia riuscita a migliorare nulla, è probabile che sia dovuto a qualcosa di più grande di loro; forse è troppo crudele lo scontro tra civiltà nomade e civiltà urbana. Forse è eccessivo il divario tra i troppo poveri e i troppo ricchi, questi ultimi presenti anche a Gibuti. In ogni caso la libertà è stata mutilata. Sempre meglio che morire nel deserto. Forse.
Un giorno di qualche anno fa il Governo piantò e seminò ai fianchi delle strade, fuori e dentro la baraccopoli, lungo le strade che non sono strade. Interrò e seminò nel terreno pietroso, per mietere non grano ma grana: tanti cartelli uguali. E sopra c’era una scritta.
Si dava la possibilità di acquisire legalmente e definitivamente il pezzo di terreno occupato dalla stuoia, anche anni prima. Bastava presentare il certificato di proprietà o un documento che attestava il titolo d’occupazione provvisoria, un documento d’identità e versare per la pratica, 20.000 franchi gibutini (fdj), cioè circa 90 euro; chi non era ancora proprietario poteva acquisire l’area occupata a 800 fdj a metro quadro, cioè 3,50 euro, dentro la baraccopoli o a 1500 fdj, 6,65 euro vicino alle strade principali. Quindi si dava la grande opportunità di mettersi in regola con lo Stato e al sicuro da espropri di altri occupanti (o da parte dello Stato stesso). Due grandi foto mostravano anche una baracca di lusso e una villetta in stile utopico locale, tanto per completare l’adescamento. Ma dall’altra parte del cartello non c’era nulla, di sicuro non più la libertà di andare oltre (come piaceva a Woody Guthrie), come nulla c’era nelle tasche dei nomadi non più nomadi.
Però Mohamed, il preside della Scuola Miriam, ci avvisò subito di questa che era, tuttavia, una grande occasione. E poi vagò, cercando letteralmente tra le pietre e sotto i sassi, finché non trovò uno degli ultimi terreni non occupati e abbastanza grandi da poterci edificare una nuova scuola in muratura, l’attuale in costruzione. Acquistammo subito il terreno per non perderlo, ben consapevoli di infilare la testa nel vespaio della burocrazia.
Eravamo noi dell’Onlus, il Consiglio del quartiere e la Scuola Miriam contro il Governo e il suo apparato. Per procedere bisognava pagare tasse molto care e richiedere parecchi documenti tra cui titolo di proprietà, certificato di destinazione d’uso, dichiarazione di edificabilità, iscrizione al catasto e altri: quando globalizzazione e progresso passeggiano mano nella mano. Si riuscì comunque a ottenere un certificato dopo l’altro, mentre i mesi caldi si alternavano ai mesi più caldi. Mi informarono un giorno però che qualcuno di potente e autoritario pretendeva una tangente per mandare avanti un documento: quando civiltà e globalizzazione vanno a braccetto nel deserto. Decisi che come onlus non era corretto pagare mazzette ma neanche prudente intromettersi o intervenire direttamente. Avevo abbastanza fiducia che il Consiglio avrebbe affrontato la faccenda; infatti mi dissero che la pensavano al mio stesso modo: non subire. Mi chiesero solo di accompagnare una mattina il preside e suo cugino, che era nel Consiglio, per un giro in città in un certo ufficio. Pensai che, pur essendo determinati a non pagare la tangente, forse volevano rafforzare l’azione facendo sapere che con loro era coinvolto anche uno straniero.
Arrivammo infine presso un casermone fatiscente, polizia all’ingresso e gran via vai di gente indaffarata o in attesa. Il preside, suo cugino e io attraversammo vari corridoi fino a fermarci in una sala affollata di uomini accaldati e mosche. Il preside mi informò che era proprio nell’ufficio attiguo che doveva passare il documento bloccato e che, se si fosse ceduto all’ingiustizia, era sempre lì che l’eventuale tangente avrebbe dovuto essere consegnata. Poco dopo uscì da una porta un impiegato di mezz’età, in maniche di camicia e cravatta. Quando ci vide ci venne incontro, ci salutò cortesemente in francese per poi dire qualcosa in somalo sorridendo ai miei compagni, che ricambiarono con identici modi educati e se ne tornò in ufficio. Pensai, anche dalle maniere dei miei amici, che non era lui l’uomo che voleva la mazzetta. Qualche minuto dopo nella sala entrò un tipo sui sessanta, robusto e ancora in forma, capelli cortissimi e baffi appena brizzolati, l’aria e lo sguardo da duro. «Ecco - mi disse il cugino sogghignando - quello è uno sbirro in pensione, e quando era in servizio, ma anche ora, era considerato uno tosto con cui era meglio non averci a che fare». Senza fermarsi a bussare entrò nell’ufficio sbattendosi dietro la porta. Ecco il nostro uomo che arrotonda la pensione, pensai.
Un istante dopo si sentirono alcune urla acute del burocrate cortese e pochi latrati secchi e di timbro basso dello sbirro violento, conclusi da un rumore come di potente cazzotto sul tavolo. Poi lo sbirro uscì venendo verso di noi, ci lanciò uno sguardo acuto, a me indecifrabile, e ci invitò decisamente a uscire all’esterno. Appena fuori, mi strinse la mano come in una morsa, mi sorrise e in francese mi disse: «Quello che è giusto è giusto». Il vecchio sbirro si presentò come il padre del cugino del preside, quindi suo zio affezionato; mi spiegò che non era giusto che «quel bastardo burocrate del catasto, oltre al suo stipendio già alto, volesse anche estorcere soldi alla gente povera della baraccopoli, soprattutto per una iniziativa benefica come la costruzione di una scuola». Da allora nessuno ha più preteso tangenti.
Questa terra è fatta per me e per te. Soprattutto per i bambini, magari ugualmente un po’ liberi, anche se non più nomadi.