Quando Re Lear diventa chef

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Soffiate, venti, squarciatevi le guance!
Infuriate! Soffiate! Voi, cateratte e uragani,
sgorgate dal cielo a sommergere i nostri campanili,
ad annegarne i galli sopra i tetti!
Voi fuochi sulfurei rapidi come il pensiero,
forieri di fulmini che squarciano querce,
scotennatemi il capo canuto! E tu, tuono che tutto
scuoti, schiaccia il ventre rotondo del mondo,
spezza lo stampo della natura,
spargi e disperdi tutte le sementi
che fanno l’uomo ingrato!

(William Shakespeare, Re Lear)

Winston Churcill aveva l’abitudine di intrattenere i suoi commensali illustrando le tattiche militari con tutto ciò che si trovava sulla tavola: piatti, posate, bicchieri, saliere, posacenere. Si racconta di una lunga narrazione dell’imponente battaglia dello Jutland, durata due ore, con sole caraffe e bicchieri. Cibo e stoviglie si prestano a diventare oggetti di racconto, mentre una cucina è uno sfondo metaforicamente efficace dove consumare parabole di storie di potere condensate nello spazio della preparazione di una cena.

Nel laboratorio teatrale di Cantieri Meticci al centro Zonarelli si lavora a un gustoso esperimento teatrale: la cucina shakespeariana. La tragedia del potere per eccellenza, Re Lear, s’installa dentro la cucina di un grande ristorante dove il re è lo chef Ossama. Al tavolo della cucina lavorano le sue tre figlie, i due mariti delle maggiori, un inserviente di cucina. In sala, servono ai tavoli tre camerieri. Il Matto è l’assistente personale dello chef, che lo appoggia in ogni situazione e soprattutto gli regge ciò che causa l’inizio del decadimento: la bottiglia.

Il regno traballante viene diviso tra le prime due figlie, la terza cacciata, lo chef relegato in un angolo, le cuoche in carica si litigano le padelle e non riescono a mettersi d’accordo neanche sul menù. Lo chef esautorato si porta il Matto nella sala, dove regna il caos e i camerieri tentano di calmare la clientela insoddisfatta, a contemplare con le lacrime agli occhi quello che una volta era il suo grande regno. Alle pareti sorridono le foto delle celebrità abbracciate al grande chef: «Sophia Loren – indica Ossama al Matto – quello è Berlusconi…» e addita le cornici con il dito tremante.

Ossama è un attore che riesce a toccare il tragico e il comico nello spazio di una manciata di secondi. La cucina shakesperiana è il suo elemento. Ci racconta di un comico egiziano che, dopo aver dimenticato una battuta, aveva imparato a usare questa mancanza come cavallo di battaglia. Si prepara con cura gli oggetti di scena, soppesa ogni situazione, ascolta, considera e improvvisa. È un improvvisatore impulsivo, trascinatore, come quando uscì sulla scena vuota seguito a ruota da Matteo, prima della performance di Cantieri Meticci al convegno Chi sono gli Hazara?. L’intervento andò a coprire un buco tecnico in cui praticamente, puntuale come la legge di Murphy, niente funzionava. Tutto magicamente non calcolato. Puro sesto senso teatrale, direi.
Ossama è uno scrittore, un giornalista, insegna arabo, traduce, canta, recita e ho perso il conto di quante lingue parla. Niente di più lontano da un re Lear al tramonto della vita, considerata la sua inesauribile energia, ma sulla scena tra pentole e piatti dà vita a un Lear tragico e grottesco che ancora ha tanto da dire.

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