Romeo è iraniano e fa il cameriere

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Che c’è nel nome? Quella che chiamiamo rosa,
anche con altro nome avrebbe il suo profumo.

(William Shakespeare, Romeo e Giulietta)

Arnold Wesker prima di fare il drammaturgo faceva il pasticcere, quindi scrive di qualcosa che conosce molto bene: il duro lavoro in un ristorante, le lotte intestine tra i dipendenti. Nell’opera teatrale La Cucina ci racconta dell’odio istintivo che corre tra il personale di cucina e quello di sala, odio che è secondo solo a quello per il cliente.

Nel laboratorio teatrale di Cantieri Meticci lo spunto del contrasto sala-cucina è colto per lavorare sulla faida familiare più famosa della storia del teatro, quella tra i Capuleti e i Montecchi. Tra i vapori di cibo nasce l’amore tra un cameriere e l’apprendista cuoca. I due fronti l’un contro l’altro armato, insieme per forza nell’interesse della baracca da mandare avanti, il ristorante, sono gli iraniani in cucina e gli italiani in sala.

Il gruppo degli iraniani di Cantieri Meticci è particolarmente talentuoso. Sanam, attrice e traduttrice, è presente nel progetto della compagnia multiculturale sin dai primi anni, dal lontano 2008. È una delle colonne di Cantieri Meticci. L’impegno culturale di Sanam è a 360°: il 24 aprile andrà in scena al teatro Itc di San Lazzaro lo spettacolo Morto lo scrittore dell’autore e regista iraniano Arash Abbasi, che vede Sanam come aiuto regista. Accanto a Sanam nella cucina shakespeariana c’è Ramin, altra colonna della compagnia, presente da anni nel progetto.

I nuovi ingressi iraniani nel laboratorio sono Davood, Arta (il nostro Romeo), Latif. A vederli improvvisare sembra che lavorino insieme da sempre. I cuochi, sotto lo sguardo autoritario della gerente del ristorante, Sanam, e del caposala, Nicola, fanno scorrere la cucina come una catena di montaggio ben collaudata.

Nell’ultima propaggine del meccanismo avviene l’intoppo: Arta, il nostro Romeo, finisce a lavorare in sala mentre per Raffaela, in arte Giulietta, è il primo giorno di lavoro come apprendista cuoca. I due s’innamorano. I piatti pronti scivolano dalle mani della cuoca nelle mani del cameriere e, con quelli, nascoste promesse d’amore. Così le due fazioni, che fino a quel momento si sono mostrate i denti mantenendo nell’odio reciproco una sostanziale condizione di pacifica convivenza, non gradiscono quella parentela acquisita forzatamente. Lontano dalle orecchie degli avventori volano insulti in fārsì. Giulietta non capisce, lei che per essere ben accolta aveva tentato un saluto con le poche parole in fārsì che conosce, ma l’avevano guardata storto. Romeo e Giulietta si parlano con le dita sfiorandosi le mani mentre una pietanza passa dai palmi di uno a quelli dell’altro.

Le parole all’amore non servono, ma qui non si possono accantonare. Parole come suoni minacciosi, suoni che si ascoltano senza capire, come si guardano passare nuvole cariche di pioggia. Le parole sono nemiche. Erigono muri, improvvisamente. Segnano appartenenze evidenti come cicatrici. Separano, se vogliono, legano e tirano dalla propria parte. Le parole sguainate come armi incrociate nel mezzo. I camerieri italiani da una parte e i cuochi iraniani dall’altra, così deve essere, e basta. L’ordine è ristabilito. Ai due giovani amanti, come nella migliore delle tragedie, è vietato incontrarsi, mentre la violenza sbrana ciò che rimane del loro futuro.

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