Il cibo come… qualcos’altro

«Finisci il tuo formaggio, ma fallo da pover’uomo, se no ti pescano ancora. Devo anche insegnarti come si comporta un povero? (Lo spinge a sedere e gli mette in mano il pezzo di formaggio) La cassetta è il tavolo. Metti i gomiti sul tavolo e le braccia intorno al piatto, come se ad ogni momento stessero per portartelo via, cosa ne sai? Ora prendi il coltello come se fosse una falce troppo piccola e guarda il formaggio: non così ingordamente, piuttosto con rammarico, perché, come tutte le cose belle, sta già scomparendo.»

(Bertolt Brecht, Il cerchio di gesso del Caucaso)

 

Perché scegliere il cibo come tema proprio nel momento in cui è diffuso in modo virale in tutta l’industria dell’intrattenimento? Siamo passati attraverso un proliferare di libri di ricette, da Suor Germana all’inseguimento della fantomatica cucina afrodisiaca (voi ci credete? Mah…) per arrivare alla scoperta del format televisivo in cucina, dove gli chef diventano star del sadismo e gli apprendisti vittime ai fornelli, in un connubio che agisce sul telespettatore come incolla-schermo secondo il collaudato principio del reality ‘quello potrei essere io ma meno male che non sono là’. Le ricette sono approdate anche all’interno dei programmi tv per bambini, posso garantire personalmente la veridicità dell’informazione.
Tornando alla domanda iniziale, c’è sicuramente una ragione per cui la gastronomia è sulla bocca di tutti, non in forma di cibo ma in forma di discorso. Gli approcci sono molteplici. Il cibo è, in fondo, incontro con qualcosa che è altro, un incontro che procede verso l’assimilazione. Questa assimilazione può risolversi in esperienza intima, tutta privata, oppure scatenare relazioni, ridisegnare confini.

Insomma, il cibo è un punto di vista straordinario sull’uomo, a maggior ragione perché è un punto dal quale deve passare necessariamente. Come si mangia un pezzo di formaggio? Azdak insegna al granduca fuggiasco come sembrare un povero e passare inosservato tra i poveri, ne Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht. Nel laboratorio teatrale di Cantieri Meticci si lavora con storie che hanno un approccio con il cibo non neutrale, storie che raccontano del mondo attraverso quel punto di vista quotidiano che diventa specchio di differenze, nodo d’incontri.
Nella raccolta di racconti La vendetta della melanzana, Bulbul Sharma racconta le donne indiane. Le loro vite sono legate a filo doppio al cibo. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta due coniugi uniti in matrimonio per decisione delle rispettive famiglie, si separano dopo aver condiviso una vita coniugale scialba e insignificante. Ogni domenica, però, il marito si presenta a casa della donna per il pranzo. Lei prepara il cibo preferito di lui, il pasticcio di melanzana, che le riesce divinamente. Il pranzo viene consumato insieme nel silenzio, proprio come il marito desidera. Così prosegue, nel tempo, una relazione sgradita e inutile, senza recriminazioni. Solo la melanzana, silenziosamente, ogni domenica consuma la propria vendetta sui succhi gastrici dell’uomo, procurandogli tremendi bruciori di stomaco.
Nonostante questo, il pasticcio è talmente buono che il pranzo domenicale si ripeterà anche la domenica successiva, e quella dopo ancora, con conseguente, silenziosa, vendetta della melanzana.

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