Una straordinaria normalità

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Scolaresca in gita al Birds garden di Esfahan, Iran

«Le frontiere? Esistono eccome.
Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini»

Thor Heyerdhal

Qualche tempo fa ho incrociato una collega in corridoio, a scuola.
È la prima volta che ci vediamo dal mio ritorno, lei mi sorride e con gli occhi pieni di curiosità mi domanda: «Allora, com’è il Sudamerica?» «Bello…» «E le persone come sono?» «Le persone… beh, le persone sono… normali!» In un attimo vedo spegnersi la luce nei suoi occhi, vuole dirmi qualcosa ma è sconvolta, mi sorride un po’ imbarazzata e con poche parole entra in classe.

Ho pensato molto a questa mia risposta, uscita così di getto… In principio ho pensato che il viaggiare per lunghi periodi avesse indotto una sorta di assuefazione, una perdita di sensibilità, un appiattimento delle impressioni, forse come reazione ai tanti stimoli e quindi all’incapacità di coglierli perché satura.
Poi, un giorno, mi sono resa conto di quanto fosse importante quella risposta, di quanto ci fosse dentro.

Marco Aime, che di viaggi ne sa qualcosa, definisce il viaggio «un viaggio nostalgico lontano dalle implicazioni della vita moderna», una sorta di corsa in cerca di un rifugio in cui trovare i valori che vediamo spegnersi nella nostra società. Quanto più la nostalgia è dolorosa, tanto più si rafforza l’idea di un mondo autentico e primitivo nella sua accezione più pura. Un mondo non corrotto, dove tutto è originale e tradizionale, antico se vogliamo, dove tutto sa di buono.
E un mondo così bello non può che essere lontano e profondamente diverso dal nostro.

Dovremo volare tante ore per raggiungerlo, dovremo cambiare l’ora, il clima e la lingua e sentirci stranieri; dovremo riconoscere quell’ideale che ci dà la speranza e l’illusione di poter ritrovare là quello che non troviamo più (e non vediamo più) qua.

L’Altrove deve diventare esotico, cioè originale e diverso per appagarci. Attraversiamo il nuovo scenario in cerca di grandi differenze, dei segni speciali che distinguono la nostra cultura dall’altra, e sappiamo già dove guardare, cosa fotografare… Così quando ci capita di incontrare un monaco tibetano che parla al cellulare o osserviamo le antenne paraboliche sui tetti delle capanne cambogiane, siamo delusi, feriti, come la mia collega quando le ho risposto che i Sudamericani sono normali. Ho tradito il suo immaginario di un eden di sorrisi e cordialità, non le ho dato la risposta che desiderava, che si aspettava: con una parola ho unito due punti lontanissimi e reso vano un lungo viaggio.

Allora vorrei spiegarle che occorre imparare a vedere la bellezza e capire (se mai è possibile) una cultura attraverso l’ordinario.

Occorre tempo e pazienza e una mente libera perché la fretta è superficialità e la voracità è caos.
Occorre dimenticare tutto, non cercare nulla.
Occorre correre il rischio di stare da soli, senza far nulla, di annoiarsi e avere un po’ paura e allora potremo sperare di vedere e vivere la realtà e non la proiezione di essa che ci siamo costruiti perché qualcuno l’ha costruita per noi.

Sì, un giorno la prenderò da parte e le dirò che la più straordinaria, sconvolgente e riappacificante scoperta che potessi fare, è la normalità del mondo, con i suoi vuoti e i suoi contrasti, con tutto ciò che ci avvicina e ci rende stupendamente simili.

Riferimenti bibliografici: Marco AimeL’incontro mancato (Bollati Boringhieri, 2005), Eccessi di culture (Einaudi, 2004).

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