Il mondo è una cucina

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Per Shakespeare il mondo sarà stato un palcoscenico ma per me è una cucina
(Arnold Wesker)

Il drammaturgo inglese Arnold Wesker scrive nel 1959 l’opera teatrale La cucina. L’azione si svolge in un grande ristorante, il Tivoli, non nella sala ma dietro la facciata, nelle cucine. Protagonisti sono i cuochi, gli sguatteri, i camerieri, per un totale di 32 attori in scena. Il realismo della scena si presta a essere metafora, appunto, del mondo. Dietro le quinte di un sogno posticcio di piacere ed eleganza esiste un universo di esseri umani che gravitano a ritmo febbrile, in una danza rapida lanciata a testa bassa verso la produzione. Un ingranaggio che non lascia spazio ai sogni, e se i sogni tentano d’incepparla li tritura senza pietà.

Ci lasciamo ispirare dalla geniale intuizione dell’autore per lavorare nel nostro laboratorio con i migranti, il lunedì sera al Centro Interculturale Zonarelli, a ricreare come ne La cucina una situazione teatrale dalle grandi potenzialità. La cucina di un grande ristorante disegna una fitta trama di relazioni teatrali: prima fra tutte, il fronte compatto di camerieri e cuochi, una linea infuocata li divide, gli uni contro gli altri. Una rigida gerarchia finalizzata a ottimizzare la produzione coinvolge tutti i lavoratori, dal lavapiatti al proprietario, e tutti sono sottomessi al cliente. Lo spazio teatrale viene ridisegnato e diviso: l’ambiente stretto e vociante della cucina, la passarella dei camerieri, lo spazio aperto e tranquillo della sala dove siedono gli avventori. I camerieri sperimentano in lungo e in largo lo spazio, percorrendo gli ambienti ed esercitandosi a mutare all’occorrenza come camaleonti il ritmo della camminata, l’assetto fisico, il tono di voce, a seconda che si trovino a vista del cliente o a tu per tu con i cuochi. Le azioni, finalizzate alla rapidità della produzione, piegano i corpi in un balletto che procede a ritmo serrato. È un valzer che guida gli attori, che li aiuta a coordinare la macchina umana rappresentata.

In tutto questo, ovviamente, manca il grande protagonista: il cibo. Come anche nell’opera teatrale di Arnold Wesker, La cucina, (l’autore lo specifica nelle Avvertenze per la messa in scena che introducono il testo) tutte le preparazioni sono mimate. Alla bisogna eleggiamo un maestro, Anthony, attore sulla scena e cuoco nella vita, che ci improvvisa una speciale lezione di cucina: tagliatelle immaginarie. Nelle sue mani prendono vita attrezzi, ortaggi, uova, terrine, impasti, grembiuli, bucce, coltelli, tutto inesistente.
Il gruppo si divide in coppie per un’altra speciale lezione di cucina: insegnare un piatto senza parole, mimandone la preparazione, imitati da un compagno. Le mani si muovono lentamente e con cura, tutti gli occhi sono puntati sulle mani che impastano, scelgono, sbattono, impugnano l’aria con studiata lentezza. Mi muovo tra le coppie e osservo le mani. C’è silenzio. Altri olii sfrigolano altrove, nel ricordo, in altre cucine. Ognuno è concentrato a immaginare la propria. Sono le cucine di casa, non c’entra più la frenesia produttiva di Wesker, ognuno si muove dentro il piacevole ricordo dei propri momenti di tranquillità. Vengono messe in scena le spezie: sono i miracoli del teatro, della comunicazione tra persone che il teatro permette. Azioni teatrali che sono madeleine proustiane offerte ai compagni. Tutti ci mettono una grande attenzione, è una cosa molto seria questo gioco. Le dita si muovono con lentezza irreale, inseguendo il ricordo del gesto quotidiano: è la memoria del corpo che agisce, messa in moto dall’immaginazione.
Mi avvicino a Rashid, che sta insegnando a Salvo il chapati pakistano: impasta qualcosa di piccolo e morbido, accende il fornello, la schiaccia dentro una padella e io, miracoli del teatro, ho sentito profumo di pane.

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