Di mulini a vento, miraggi e sapori di casa
Lunedì sera, il laboratorio teatrale di Cantieri Meticci si anima di tanti Don Chisciotte e altrettanti Sancho Panza. Il celebre cavaliere errante e il suo fedele scudiero ci prestano le facce, i loro modi di camminare e soprattutto i loro sogni per fare teatro insieme. «Don Chisciotte è come il rivoluzionario in Egitto ‑ commenta amaramente un rifugiato ‑ combatte contro i mulini a vento».
La sala si anima di spade immaginarie. Di risate. Di libri, di libri pericolosi. I vecchi camminano a stento, s’appoggiano ai bastoni, ma davanti a un libro gli occhi brillano, le gambe s’addrizzano, le mani si stringono al collo del nemico immaginario che sorge dalla pagina e diventa un gigante. Ovunque s’ingaggiano singolar tenzoni tra creature mostruose e nobili cavalieri. Si dimentica la vecchiaia. Fino a che una gamba che cede, un dolore alla schiena, una caduta, un bibliotecario che riporta all’ordine, non rammentano l’ordine naturale delle cose: i libri son libri, la fantasia sta nella testa, i mostri non esistono e i cavalieri nemmeno, il corpo non ce la fa e reclama riposo. Ma dal sogno Don Chisciotte si porta fuori un poco di follia e non s’arrende. Per questo si va a cercare qualcuno che lo accompagni nelle imprese, un compagno, uno scudiero: Sancho Panza. Se l’immaginario di Don Chisciotte brulica di maghi malvagi, damigelle e giganti, la fantasia di Sancho è tutta rivolta ai pranzi luculliani che la sua povertà gli nega. Sancho sogna cosciotti di fagiano e buon vino e quando Don Chisciotte gli dipinge il miraggio di un’isola lontana di cui sarà governatore, immediatamente traduce il potere in quantità di cibo di cui disporre e accetta.
Gli attori si avviano a coppia lungo un cammino teso verso due miraggi distinti ed egualmente lontani: uno ha il ritmo del vecchio cavallo Ronzinante, l’altro ha l’andatura del placido asino Buricchio. Il mondo lontano nel cuore e distante nel viaggio, il sogno, la lotta contro i giganti (anche se gli altri non li vedono), la fame di qualcosa da sognare, tutto questo ci parla della condizione del rifugiato.
Il teatro, come il cibo, è una bolla da creare per viverci dentro quel poco di tempo consentito dall’ordine naturale delle cose. Il teatro, come il cibo, si prepara e si consuma insieme. Quel miraggio di mondo (il proprio mondo a cui non si può tornare, la casa) sembra più vicino se un piatto familiare, un piatto di casa accompagna il sogno. Il sapore e l’odore sono materia che portano vicino il miraggio, creano una bolla di profumo dentro cui per un attimo, si può vivere e ricordare meglio. Una bolla di Africa, di Afghanistan, di Egitto, di Pakistan, dentro cui rifugiarsi. È forse l’unico modo che il rifugiato ha per crearsi spazio proprio, dentro l’estraneo che lo circonda. Laura ci prepara frittelle di mais e banana, dolce camerunense, per festeggiare il compleanno di sua figlia. «Mi devi insegnare qualcosa del cibo italiano, io mangio solo cibo camerunense ‑ mi dice Laura ‑ ogni tanto». Se penso a quello che questo significa per lei, è una richiesta che mi riempie di gioia.