DJIBOUTI, Quando il mondo è dei capi

Capi quartiere, capi cantiere e capi guardiani: quando il mondo è dei capi

Una vita sociale sana si trova soltanto, quando nello specchio di ogni anima la comunità intera trova il suo riflesso, e quando nella comunità intera le virtù di ognuno vivono.

Rudolf Steiner

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La dottoressa Martinelli con alcuni dei capi

Ho un brutto carattere e odio molte cose nella vita, alcune così tanto che il mio fegato spesso si ribella e mi dice non solo che lui è stanco, ma anche che odiare è uno sbaglio e non mi serve. Siccome il fegato è tra i pochi amici a cui tengo e della cui sincerità non ho dubbi, sto imparando a non scaricare tutta la mia rabbia su di lui; non posso approfittarne sempre.

Tra le cose che odio ci sono i luoghi comuni: sono i luoghi che viaggiando ho imparato a non visitare più. E non perché sono comuni: non sono uno snob che evita di visitare ciò che non conosce perché lo ritiene di basso valore ma, semplicemente, quando ne hai visto uno li hai visti tutti e ti fanno solo perdere tempo nel cammino. D’altronde, è facile trovarli sulla propria carta geografica, così, quando li riconosco, traccio una linea che li aggira e procedo sulla mia rotta standomene alla larga. Uno dei luoghi comuni, odiati e evitati come le sabbie mobili, è «tutti quelli come noi siamo Noi, e tutti gli altri sono Loro» come dice bene Rudyard Kipling in We and They (Noi e Loro). Ora, questa sabbia mobile, pur non odiandola più (così tanto) per il bene del fegato e pur cercando di evitarla, ormai so che in realtà la trovo ovunque vado. L’ho vista, e la vedo, al di qua e al di là del confine, che sia il bancone di un ufficio pubblico a Gibuti o la frontiera delle acque internazionali in Italia; l’ho vista fuori o dentro una divisa da paramedico o da militare, mia o di altri, l’ho vista tanti anni fa in Rwanda tra Hutu e Tutsi.

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La vedo anche nella baraccopoli di Balbalà. Dunque, niente di nuovo: qui sono quasi tutti gibutini, distinti in Afar e somali Issa. Gli Afar vengono dalla Dancalia, mentre gli Issa sono un sotto clan di un clan più grande che ha origine nella vicina Somalia, ulteriormente poi suddiviso in sottogruppi e famiglie. Qua però vivono anche famiglie miste somalo-etiopi o perfino eritree. Poi la baraccopoli stessa, in cui convivono antico e moderno, è divisa in quartieri delimitati dal Comune ma che hanno, al proprio interno, un Consiglio dei Saggi del quartiere che amministra la legge tradizionale. Quindi, in questo posto, il We and They in teoria sarebbe un’unica grande palude di divisioni.

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Tempo fa temevamo tutto questo, sapendo che si affidava la costruzione della Scuola Miriam a una ditta edile esterna a Balbalà, sempre di gibutini ma fatta di Loro. D’altra parte, qui non c’erano altre ditte; ci dispiaceva però che, per questo motivo, non ci fosse una ricaduta economica in termini d’impiego di operai del quartiere dell’Associazione dei Genitori degli Alunni. Ma ci pensarono i capi. Il proprietario della ditta incontrò il Consiglio dei Saggi e contrattò con successo alcune assunzioni tra la gente del posto, più l’affitto di un modesto locale come ufficio. In seguito, mi disse che in realtà è una normale usanza, o almeno così era applicata da lui, da molto tempo. Mi disse anche che lo faceva sia per convinzione personale, essendo lui in fondo un privilegiato, sia perché in quel modo era sempre bene accolto e tutto filava liscio.

Sulla mia mappa, quindi, al posto di una sabbia mobile ho tracciato per l’ennesima volta un puntino di fratellitudine che, in questo caso, può convivere anche con il We and They. E così il cantiere della scuola procede spedito sotto il sole: è una scuola che più fatta a mano di così non si può. La ditta ha un regolare nome e registrazione fiscale, ma in fondo parliamo di un capo cantiere, quattro muratori e qualche manovale. Non si vedono gru né betoniere né altri attrezzi elettrici; ci sono ponteggi, carriole, pale, martelli, cazzuole, qualche secchio ricavato da taniche gialle tagliate a metà e tantissimo lavoro.

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In compenso c’è intensa partecipazione: il capo cantiere Ali Abdì detto Barakaley, che è magro come i tondini di ferro vicini a lui, segue i lavori e insegue gli estranei che girano tranquillamente dentro e fuori. È un tecnico esperto ma purtroppo non è la persona più adatta a mantenere l’ordine: è detto Barakaley «colui che predica la pace» non perché sia un tipo molto spirituale, ma solo perché copre la leggera balbuzie che ha quando parla, intercalando senza sosta con frasi tipo «che ci sia la pace», «vai in pace», «vivi in pace», tutto questo mentre, senza riuscirci, cerca di allontanare gli intrusi.

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Tra questi, c’è spesso una bimbetta con un pesante sguardo critico da potenziale ingegnere. Soprattutto si nota la presenza di un vecchietto che qui, diversamente dal suo omologo italico sempre fisso a bordo scavo a irritare gli operai, si aggira ispezionando tutto. Al di là del dato antropologico simile va detto che costui lo può fare perché, oltre a essere socio dell’Associazione Genitori (ormai è anche nonno da tempo) è un Capo del Consiglio dei Saggi e quindi nessuno lo ferma.

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In tutto questo, va doverosamente menzionato Ahmed, il capo guardiano; è un distinto sessantenne, poco più o poco meno, dalla barba tinta di henné rosso arancio ed è stato assunto su proposta del Consiglio dei Saggi e grazie alla generosità della ditta. Dal colloquio, Ahmed è risultato disoccupato da circa una ventina d’anni. Infatti sui suoi documenti, come su quelli di moltissimi abitanti, dopo i dati anagrafici alla voce “professione” si legge SANS («senza»; sottinteso: «senza professione»). I suoi compiti, a servizio sia del cantiere sia della futura scuola saranno, quindi, legati alla guardia e, diciamo, alla sicurezza interna; d’altra parte, alla domanda «cosa facevi vent’anni fa prima di restare disoccupato?» ha risposto guardiano di capre… Quindi il mestiere di capo ce l’ha nel sangue!

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Quando il Noi e Loro viene sfumato in fratellitudine «la comunità intera trova il suo riflesso» e «le virtù di ognuno vivono».

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