DJIBOUTI – Sentirsi a casa
Oggi, venerdì, qui è giorno festivo, come da noi la domenica.
Non avendo programmi particolari, nel mio giorno di riposo, ne approfitto per scattare foto in ospedale. Arrivo così nella nuova sede dello SMUR, da quei colleghi d’ambulanza che, causa turni, non ho ancora visto. Li trovo immersi nei controlli di mezzi e materiale. Alcuni di loro, non sapevano che ero arrivato. Sorpresi, da militari quali sono, prima scattano sull’attenti, salutandomi con la mano alla fronte, poi, da fratelli quali siamo, ci abbracciamo. Ci informiamo a vicenda delle rispettive famiglie, che peraltro, reciprocamente, non conosciamo. Tutti mi chiedono quando terrò un corso d’aggiornamento. La settimana prossima, rispondo, generando ampi sorrisi. Mi dicono sinceramente che sanno di essere un Paese sottosviluppato e che guardano a noi come possibile fonte di aggiornamento perché là dove ci sono soldi (in Italia) vuol dire che si spende per cambiar spesso materiale e per aggiornarsi. Per questo motivo approvano i nostri invii di materiale anche usato e, ancor di più, un po’ di formazione da dei colleghi: per loro è comunque un miglioramento.
Cerco di raccontare meglio che posso quanto lavoro sta dietro a quello che facciamo come volontari nella nostra onlus. E, in effetti, rimangono un po’ perplessi quando gli spiego meglio che non sono un dipendente pagato dalla Cooperazione Italiana ma che, ogni volta, arrivo qui di tasca mia; loro sono discreti e non mi chiedono come sia possibile. Qui, presso l’ospedale, tutti erano abituati a vedere personale italiano stipendiato; ma, ormai da anni, la Cooperazione Italiana del Ministero Affari Esteri ha abbandonato Gibuti per altri Paesi con più potenzialità d’investimenti e di ritorno economico. Ora, da parte dell’Italia, c’è l’interesse strategico ad avere qui una base militare. Hanno già iniziato a costruirla, da noi non lo sa nessuno ma questa è un’altra storia.
Tra una foto e l’altra, per confrontare le check-list locali con le nostre mi sono messo a controllare con loro lo zaino sanitario. La scena si è svolta più o meno così: eravamo al centro del piazzale in ghiaia dello SMUR, all’ombra calda dei container che hanno riciclato per farne la loro nuova sede.
I container sono cinque, disposti a elle, ridipinti di bianco, e già roventi alle otto di mattina. A fianco a noi un operaio saldava dei telai di ferro; poi, con un flessibile dal cavo elettrico rabberciato con nastro, li segava per terra, accanto a un tubo di gomma che sgocciolava acqua in una pozza fangosa.
Di fronte, magri muratori scalzi in piedi su precari ponteggi, in sicurezza scarsi, imbiancavano della nuova radiologia i muri storti.
Mentre l’autista si dedicava ai controlli meccanici dell’ambulanza l’infermiere Hassan, seduto, come fanno qui, sulle proprie gambe ma in equilibrio sui piedi, ha aperto una vecchia cassa metallica militare, cioè il loro zaino sanitario. Hassan, notandovi un certo qual disordine all’interno, ha cominciato letteralmente a rovesciar fuori sulla ghiaia tutto il contenuto: flebo, cerotti, deflussori, fiale, garze, siringhe e così via. Intanto, alla mia sinistra, una simpaticissima capretta, non credo stipendiata dall’ospedale, si era avvicinata e aveva cominciato a brucare, smaltendo in maniera indifferenziata, i rifiuti usciti da un cartone abbandonato vicino all’inceneritore (un falò). Mentre eravamo impegnati a selezionare il materiale ancora buono da quello inservibile il mio collega si è sfogato giustamente riguardo alla difficoltà di conservare il materiale in maniera ordinata e adeguata, avendo solo a disposizione una vecchia cassa. Gli ho dato ragione, lui ha assentito e io ho atteso. Ogni tanto, continuando il lavoro, Hassan tirava dei ciottoli alla capra per allontanarla, alternandosi con l’autista, visto che puntava con interesse le nostre garze. Il mucchietto delle cose inservibili aumentava insieme al caldo, ma io ho atteso ancora. La frequenza di tiro dei ciottoli aumentava, mentre io attendevo scommettendo con me stesso. All’ultimo lancio ci siamo arrivati (e avevo vinto la scommessa, sapevo che si cadeva lì…): pur se in maniera gentile ma ferma, l’infermiere Hassan non ce l’ha più fatta e ha rivolto, a voce discretamente alta, dei “concetti di circostanza” al caro collega (e a tutto il suo clan) che gli aveva lasciato la cassa sanitaria in un tale casino.
Io, in quel momento, mi sono sentito per un brevissimo e intenso istante in Italia, al lavoro, e allora gli ho detto: «Courage, mon ami, anche da noi capita, non é perché siete un Paese sottosviluppato…» e lui, stringendomi la mano, ha replicato: «Lo so, dépend de la nature de ses collègues…».
Ho chiuso l’equo e solidale, ma abbastanza inutile, argomento con un: «Fratello, hai ragione». Visto il caldo e l’ora, ormai da aperitivo, gli avrei anche offerto una birra ma è musulmano, per cui ci siamo semplicemente battuti un “cinque” globalizzato.
A volte, quello che non avresti mai creduto è ciò che ti può far sentire a casa.