DJIBOUTI, Paradossi e teli di plastica (parte 2)

(qui la prima parte)

Ormai è buio, un polveroso buio, e fa caldo anche fuori del ristorante in cui Moussa e io stiamo finendo di cenare. Il riso alla somala è ormai un ricordo che viaggia nella mia rete neurale speziata di berberè. Il buon profumo d’incenso, che viene dal braciere all’esterno, mi convince a portare a cinque stelle la dignità di questo piccolo locale che vale meno del suo tivù LCD.

Ripenso alle due realtà: quella che vivono i miei commensali e che ho appena visto in tivù, e l’altra, che ho avuto modo di conoscere stamattina, girando con Moussa. Prima di raggiungere la baraccopoli per visitare la Scuola Miriam, infatti, abbiamo deviato per la zona delle caserme militari non gibutine, impegnate qui nella Missione Atalanta, per la lotta alla pirateria somala e al terrorismo in genere (dicunt); abbiamo così ripassato la “geografia occidentale” riconoscendo le basi militari di Francia, Stati Uniti d’America, Germania, Spagna e (addirittura) Giappone e Italia.

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Oltrepassata l’ultima base, Moussa, come se mi leggesse nel pensiero (in effetti ci conosciamo da anni) mi ha detto: «È un paradosso: ogni base da sola e tutte le basi insieme, qui sul Mar Rosso lontano dall’Europa, costano ai vostri governi milioni di euro al giorno, probabilmente molto più di quanto spendete voi contribuenti per “difendere” il Mediterraneo dagli sbarchi dei migranti… Migranti che sono l’eredità, in un primo momento, del colonialismo e poi della successiva opera di saccheggio delle risorse e di rovina delle società africane da parte occidentale. Non mi dilungo poi a parlarti dei conflitti creati apposta qua e là…».

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«No, Moussa, meglio di no», ribatto, «sai come la penso». Ora, quelle sue parole, nonché i miei pensieri di stamani, mi tornano e, proprio come onde, vanno a infrangersi contro le facce nere come scogli degli altri commensali. Quelle parole si portano altri pensieri che si liberano in altri ancora: ma è solo quello delle basi militari il paradosso? E la paura? La paura è un paradosso. È mai possibile che in Europa si continui a tenere in scacco l’opinione pubblica con la paura di tutto? Paura del terrorismo, paura della crisi, paura dell’invasione, paura dell’ebola e così via. Come è possibile permettere a pochi di far vivere molti con troppe paure? Come è possibile permettere a pochi di sfruttare nazioni che creano masse di persone sempre più disperate? Non si otterrà altro che uno squilibrio sempre maggiore, fino alla rottura. Continuo a pensare che tutti i paesi siano interdipendenti, non a causa della globalizzazione, ma per un destino comune su questa unica Terra. Non esiste un mare isolato dagli altri mari. Non si può pensare di tenere fuori i problemi, semplicemente creando muri o blocchi navali o volendo abituare tutti all’indifferenza per il numero dei morti affogati nel Mediterraneo.

Ora in tivù vedo sfilare fotogrammi con sacchi di plastica nera per i cadaveri dei morti affogati. Mentre Moussa scuote la testa in silenzio, io mi impongo di fermare per un po’ i miei pensieri, ma ci riesco solo in parte. Sfuoco il mio sguardo sul telo di plastica che fa da tovaglia. Qui la plastica è ovunque: è economica, “arreda”, copre, soprattutto inquina, fa da schermo e isola.
Allora mi viene in mente un’immagine di molti anni fa. Ero appena atterrato in Italia e stavo uscendo dall’aeroporto, di ritorno da un mese in Rwanda. Con me c’erano altri volontari. All’uscita, un padre e una madre accolsero felici la loro giovane figlia, tornata dalla sua prima esperienza di volontariato, invitandola a salire sul sedile posteriore dell’auto, dove avevano premurosamente steso un grande telo di plastica perché-non-si-sa-mai-cosa-può-aver-preso-laggiù.

L’Unione Europea sta tappezzando di cadaveri dentro teli di plastica il sedile posteriore delle nostre coscienze e ci racconta che deve proteggerci dai criminali scafisti. Sulle vere cause per cui migliaia di persone scappano dai loro paesi, a partire dalla spartizione dell’Africa del 1884 a oggi, sono convinto che molti vogliano solo stendere un telo di plastica.

 

(fonte immagini)

Da Saba Anglana, suggestioni musicali «in cammino verso il mare».

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2 pensieri riguardo “DJIBOUTI, Paradossi e teli di plastica (parte 2)

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