DJIBOUTI, La formazione continua

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L’aula per il mio corso di oggi è veramente funzionale: è una grande stuoia di due metri per tre (le fanno in India, le esportano e arrivano anche a Gibuti, dove sono molto usate).
Non è una stuoia pregiata, magari in fibra naturale di cocco, con raffinati disegni, da mettere in una sala in stile etnico. Questa che ho davanti è una rustica stuoia in fibra di plastica viola, a fiori rossi orrendi, da mettere ovunque ce ne sia bisogno, e se ne vendono di tutti i colori.
All’ora dei pasti, nelle case dei gibutini di Balbala, la stuoia serve da tavola su cui si mangia tutti insieme, attingendo con la mano destra da grandi piatti d’alluminio. Nella bidonville, chi vive nel classico cubo di cemento la mette in una delle due uniche stanze; chi invece è affittuario o addirittura padrone di una rovente baracca fatta in lamiera, cartone, plastica o in qualsiasi altra cosa utile a un’utopia di abitazione, la stende nell’unico spazio centrale. In entrambi i moduli abitativi della esuberante architettura urbana della baraccopoli, i servizi igienici non sono compresi. Il cibo viene cotto nel braciere fuori nel cortile, preparandolo a livello del terreno perché qui il tavolo non usa neppure come piano di lavoro.
Nelle ore più calde del pomeriggio (e qui tutte le ore lo sono) la stuoia diventa il divano del salotto su cui si chiacchiera e su cui, per chi ha il vizio, si masticano le foglie di khat fino al tramonto.

Di solito khattano gli uomini perché alle donne non è concesso, eccetto che nei ceti alti, che hanno più soldi da perdere. Il khat, le cui implicazioni sociali, economiche e sanitarie sono a dir poco inquietanti, è un monopolio di stato ma anche una forma di controllo perché contiene sostanze anfetaminiche e altre che provocano dipendenza, ridotte capacità lavorative e di concentrazione. È quindi uno spreco, devastante per chiunque ma ancor di più per chi, pur vivendo stentatamente, ne diventa a tutti gli effetti schiavo, soprattutto monetario; so che è un’altra storia ma mi ricorda un po’ l’abuso di Iphone, social network e pseudo informazione che si vede “da noi”. Comunque sia, anche nel torrido pomeriggio, tutti fanno qualcosa, malgrado spesso stiano khattando. Continuano il loro lavoro se ce l’hanno o commerciano in qualsiasi cosa, ovunque e sulla strada. Si spostano nel traffico caotico e polveroso; i poverissimi frugano nelle discariche, in competizione lenta con cani, cornacchie, capre e altri esseri ugualmente affamati. Tutti, chi con maggior successo, chi meno, se débrouillent, cioè provano a sbrogliare la matassa della propria sopravvivenza in questo incandescente, coloratissimo e sempre puzzolente calderone sul Mar Rosso che è la città di Gibuti.
Proprio nulla a che vedere col desertico e roccioso silenzio che sale azzurro sui lontani altipiani alle spalle.

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Al tramonto la stuoia serve ancora per la preghiera, inginocchiati verso la Mecca.
Alla sera la stuoia è la camera da letto, quasi sempre è il letto stesso se non c’è un materassaccio in gomma piuma da mettervi sopra. Solo per i malati, quando ci si riesce, ci si procura un letto in legno e paglia intrecciata. Tra la gente del ceto medio basso o bassissimo, il contatto con il suolo è ancora tradizione e obbligo insieme. Sulla stuoia, confine e territorio dell’intimità, si cammina sempre scalzi lasciandone fuori i sandali. Si nasce, si mangia, si dorme, si fanno figli, si vive e si muore sulla stuoia, in terra.

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La mia aula di lezione, la stuoia, è quindi pronta: sono le cinque del pomeriggio, siamo nel cortile dello SMUR, sotto la grande tettoia delle ambulanze e fa ovviamente caldo. È un corso di formazione rivolto ad alcuni autisti e infermieri d’ambulanza: devo spiegare e far provare loro l’uso di una barella rigida, corredata da speciali cinture d’immobilizzazione per il paziente con un potenziale politrauma.
Avrei preferito tenere il corso alla mattina, quando è più fresco e chi mi ascolta è più attento ma Soubèr ha potuto darmi solo quest’orario: c’est pas grave!
Avrei dovuto cominciare un’ora fa ma l’ambulanza che oggi doveva passare a prendermi era quella per i trasferimenti e ha portato una partoriente alla maternità: c’est l’Afrique!
Contavo sulla presenza di Soubèr che, in quanto coordinatore, mi avrebbe supportato tenendo desta la platea e traducendo in somalo per chi capisce poco il francese, ma non può; sua suocera, che lui chiama «mia madre», secondo l’usanza, è ricoverata da tempo in rianimazione. Lui, in quanto infermiere, e soprattutto in quanto genero, se ne sta occupando, per cui è ancora più impegnato. Ma ieri sera è deceduta. Ora Soubèr dovrà occuparsi, per quaranta giorni, dell’ospitalità di tutti i parenti del suo clan: a piccoli gruppi, anche da lontano, arriveranno alla “tenda dell’accoglienza” per manifestare il dolore e salutarsi. Stamane gli ho telefonato per le condoglianze e lui mi ha risposto: «Merci, c’est pas grave!»
Comincio quindi il corso da solo. Mentre attacco a spiegare la parte teorica, nel mio francese da autodidatta, penso in italiano e mi chiedo chi riceva più formazione, se loro da me o io da loro: sono tutti venuti al corso o di smonto turno o fuori servizio, aspettavano dalle quattro del pomeriggio e non sono retribuiti per questo corso.

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Seduti di fronte a me, ascoltano in sei o sette ragazzi, abbastanza attenti, mentre gli mostro come mettere le cinture sulla barella; alle mie spalle due colleghi più anziani, seduti su una brandina, khattano tranquillamente e ogni tanto traducono in somalo ciò che dico. Poi passiamo alla prova pratica: sono un po’ impacciati ma fortunatamente nel gruppo c’è anche il giovane Hassan, l’infermiere dell’altro giorno, quello col quale controllavo la cassa sanitaria e che imprecava contro i suoi colleghi disordinati. È diplomato da poco, mi chiama rispettosamente «monsieur Stefanò», è l’unico che mi fa domande e che vuole provare più volte le manovre sulla barella. Riesce a tirare anche gli altri che in fondo s’impegnano abbastanza e, a turno, provano a impacchettare un collega. È passata poco più di un’ora ed è già il caso di finire il corso; sono stanchi, alle sei di sera fa ancora caldo e anche la solita capretta se ne va via un po’ annoiata, mi pare, dalla mia lezione. Ma va bene così. Nel tempo che ci salutiamo fa buio e le zanzare già mi cercano per il loro aperitivo.
Ora devo andare a rapporto dal dottor Madian, il direttore sanitario dell’ospedale. Per andare al suo studio passo davanti alla chirurgia e alla pediatria. Nei corridoi azzurri stanno distribuendo la cena e insieme spruzzano lo spray antizanzare che mi va in gola, più dell’odore fortemente speziato del vitto per i malati. La cuoca Safya, un donnone sul tipo mami somala, cucina per i malati allo stesso modo che se cucinasse per i sani: sono malati, quindi hanno bisogno di forza e spezie disinfettanti, sostiene.

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Busso alla porta del direttore; mentre mi fa accomodare su una poltrona, si alza, esce da dietro la sua scrivania e si siede anche lui sull’altra poltrona di fronte a me. Ci conosciamo da un bel po’ e riprendiamo il filo di un discorso già iniziato. Si passa una mano sul viso. Tutta la mattina l’ha passata in sala operatoria ad addormentare e risvegliare pazienti e il pomeriggio a guerreggiare con la burocrazia di un ospedale sempre bulimico e anoressico di risorse. Gli espongo quanto ho notato in questi giorni sia sul materiale che a loro sarebbe utile, sia sull’organizzazione e sulla formazione fatta o da fare. Mi ascolta attentamente e, concordando con quanto ho detto, mi spiega che il nodo di fondo per loro è l’organizzazione del lavoro. Non solo, lui è un sostenitore della formazione continua che sarebbe anche in grado di dare, essendosi formato in Francia ma il suo problema è che, da solo, non riesce a seguire tutto. Replico che comprendo e che cercheremo di fare più corsi oltre all’invio del materiale. Anche noi, come volontari di una onlus, si sogna di fare di più, gli dico sulla porta, ma non è facile.
Nel tempo in cui guido verso casa, zanzare e pensieri mi punzecchiano insieme: il giovane Hassan, finito il corso sulla barella, mi ha ringraziato e chiesto educatamente se era possibile, inshallah, procurargli qualsiasi libro o filmato sulle tecniche di soccorso in ambulanza. Ci terrebbe molto a continuare ad aggiornarsi. Ha spinto oltre la sua imbarazzata cortesia e mi ha domandato se c’era una qualche possibilità di venire in Italia per formarsi meglio, inshallah.
Gli ho risposto che avrei fatto tutto quello che potevo e che forse, inshallah, qualcosa si potrebbe fare. Come spiegargli che io, da solo, ho pochissime risorse e che non ho alle spalle una grande organizzazione?
Non glielo ho spiegato perché quando qui si dice inshallah si è detto quanto basta.

La formazione continua… continua, anche per me.

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