Una festa di paese italiana in un bazar mediorientale

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«Più svelta! Più svelta!» continuava a gridare la Regina, ma Alice sentiva
di non poter correre più di così, e le mancava perfino il fiato per dirlo.
La parte più curiosa della faccenda era che gli alberi e le altre cose intorno a loro non si
spostavano minimamente: per quanto corressero, era come se non superassero mai nulla.

(Lewis Carroll, Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò)

Quest’anno al laboratorio teatrale di Cantieri Meticci c’è una preziosa novità: la musica, o meglio, i musicisti. Pazientemente presenti a ogni prova Enrico e Ahmed accompagnano attori e registi nel lavoro di costruzione di Cuoco alle polveri – storie di ribellioni e ribollite lo spettacolo che andrà in scena l’ormai vicinissimo 15 giugno. Il laboratorio è un luogo quanto mai vario e variabile. Le nazionalità sono tante, ed è tutto un tradurre. Italiani, egiziani, marocchini, siriani, palestinesi, belgi, somali, afgani, iraniani, camerunensi, nigeriani, russi, cinesi, pakistani, indiani… Lo spazio è frazionato, il tempo dilatato dai tempi di interpretazione delle parole. Insomma non è quello che si può definire un tempio della concentrazione.

Lo spazio teatrale però non ha le stesse regole del quotidiano, questo è il suo bello. Le regole dello spazio e del tempo teatrale si scoprono vivendole, come Alice scopre le regole del Mondo attraverso lo Specchio soltanto dopo aver attraversato quella leggera nebbiolina magicamente apparsa al posto dello specchio mentre gioca a scacchi con la sua gatta. Nel teatro, la musica, per esempio, è tempo ed è spazio. È qualcosa che agisce in modo tangibile sulle relazioni e sui corpi. Per questo quando Ahmed ed Enrico suonano diventa tutto più chiaro. Gli attori prendono posto dentro la musica e curano lo spazio dell’azione teatrale da essa definito, con la stessa attenzione con cui ci si può prendere cura dei vasi di fiori sul davanzale di una finestra. È bello veder provare e riprovare un’azione con la musica. Il corpo si fa più sicuro e preciso, la relazione con gli altri non è casuale. I gesti vengono scelti, selezionati, rafforzati nelle intenzioni. La musica circoscrive lo spazio dell’azione, si prende la responsabilità del tempo: l’attore deve soltanto abitarla.

Ahmed è palestinese e suona la darbuka. Enrico è italiano e suona la fisarmonica. Si sono incontrati per la prima volta al laboratorio teatrale di Cantieri Meticci. Però sono due musicisti talmente bravi che non hanno bisogno di parlarsi, figuriamoci. Si siedono uno accanto all’altro e suonano. A me sentirli fa uno strano effetto, perché i suoni dei due strumenti si scivolano addosso, l’uno con l’altro. La darbuka di Ahmed è una percussione secca, acuta, un po’ metallica. La fisarmonica ha un suono così familiare, caldo, pieno di riverberi. È un po’ come se s’incontrassero il ricordo di una festa in un qualsiasi paese d’Italia e l’incarnazione sonora di un bazar nell’immaginario mediorientale. Il senso di familiarità della darbuka di Ahmed è virale. Mentre Ahmed suona ogni tanto, a sprazzi incontrollati, qualcuno si mette a cantare in arabo, ed è subito capannello. Cantano, i volti vicini, percuotono quello che suona meglio: una sedia, un tavolo.

Faccio ad Ahmed e a Enrico qualche richiesta specifica per la scena. Non rispondono, suonano. È una traduzione all’impronta in un linguaggio universale in cui le parole non contano. Cosa possiamo desiderare di più?

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2 pensieri riguardo “Una festa di paese italiana in un bazar mediorientale

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