Lampedusa Mirrors: Tunisi e Italo Calvino
Tunisi è come l’impero del Gran Khan de Le città invisibili di Italo Calvino: una città che ne contiene altre dieci, altre venti, tanto che sembra impossibile poter arrivare a conoscerle tutte senza un Marco Polo a disposizione. O dei bravi amici tunisini che ti portano dappertutto.
C’è la distesa vastissima di case bianche e affastellate una sull’altra, di cupole tonde, archi e minareti; c’è la medina di strade strette, un lunghissimo, larghissimo, ininterrotto suq dove si vedono e si vendono merci e persone di ogni genere; c’è l’antica Cartagine – sì, proprio la «delenda Carthago» di Catone il censore; c’è La Goulette, piccola Sicilia, Sidi Bou Said con le case bianche e blu, e La Marsa che ricorda Miami se non fosse per i cammelli bianchi e i dolci bembaloni (simili ma non uguali ai nostri bomboloni); poi ci sono i quartieri più poveri, tanti, soprattutto nella banlieue sud, case costruite per metà, rifiuti ovunque, carrettini e bambini impolverati. Infine, nel moderno centro città, c’è l’Avenue Habib Bourguiba, il cui nome rinnovato dopo l’indipendenza non può cancellare del tutto il sapore di strada parigina ricostruita nella colonia. E decine e decine di teatri, centri culturali, gallerie d’arte, centri giovanili, che hanno avuto vita nuova dopo il 2011, anno della primavera tunisina che aprì la strada ad altre primavere, con la deposizione di Ben Ali e le prime libere elezioni dopo 24 anni.
Tunisi è anche la città dell’inattendu, il luogo dell’inatteso, dell’imprevisto. Non solamente per il gioco di scatole cinesi appena descritto. È l’aria che si respira, l’essenza di chi la popola. La scoperta avviene lentamente, ti travolge tuo malgrado. Come è successo a noi.
Primo giorno di laboratorio alla Casa dei Giovani di Khaznadar: stringiamo le mani accoglienti dei cinque giovani attori diplomati all’Institut Supérieur d’Art Dramatique che ci aspettavamo di trovare, varchiamo la porta della sala prove… e qui ci salutano una quindicina di altri sorrisi, quelli degli educatori e operatori culturali dei centri giovanili della città, pronti a mettersi in gioco con noi. Siamo sbalordite e allo stesso tempo entusiaste: siamo tanti e tutti con esperienze diverse, il gruppo è una vera forza della natura. Ma non è tutto: a queste mani e a questi sorrisi, già dal secondo giorno si aggiungono gli occhi dei ragazzi del centro giovanile. Passano di là, sono timidi, sfuggenti, ma non riescono a nascondere la curiosità. Sbirciano dalle finestre, poi occupano gli stipiti delle porte pretendendo di essere invisibili, quindi, all’improvviso, con diversi giorni di anticipo sul programma, eccoli esplodere in risate fragorose mentre raccolgono polvere e sabbia da terra insieme a noi, nella gioia e nella fatica del lavoro teatrale. Come se fosse naturale. Inatteso ma naturale, un’orchestra polifonica composta da occhi, sorrisi, mani, in un teatro a 1.700 km da casa.
Building competences, breaking prejudices [Costruire competenze, rompere i pregiudizi]: il progetto Lampedusa Mirrors non nasce solo per formare artisti nel lavoro teatrale con ragazzi e giovani, ma anche per capire cosa sia che unisce e divide Italia e Tunisia attraverso la porta di Lampedusa. Capire, al di là delle verità filtrate dai mass media, quali siano le ragioni profonde che spingono i giovani tunisini ad abbandonare «La Verde» (così gli africani chiamano la Tunisia) per venire in Italia, quella stessa Italia che molti giovani italiani lasciano perché non ha più niente da offrire.
I nostri nuovi amici tunisini hanno organizzato degli incontri in tre quartieri della banlieue sud con alcuni ragazzi che hanno fatto l’esperienza dell’emigrazione clandestina e altri che sognano di farla. I primi hanno tra 20 e 30 anni, ma ne dimostrano molti di più. I secondi hanno da 10 anni in su. E sono proprio dei bambini. I primi quartieri che visitiamo sono i più poveri in assoluto; qui l’Italia è un sogno e un’ossessione: «Qui non c’è niente. Lo stato tunisino disprezza e tradisce i suoi giovani. C’è povertà. E non cambia niente. Qui quello che ti ammazza è la routine: i giorni sono tutti uguali, gli stessi giorni, le stesse notti, le stesse facce, la stessa depressione». «Ma rischi la morte in mare, e là non è il paradiso», dice in arabo Henneh, un’allieva del laboratorio. «Io sono già morto. Qui non ho più niente. La prima volta mi hanno espulso dall’Italia dopo sei mesi. Tornato a Tunisi sono stato 10 giorni senza mangiare, senza bere, senza dormire. Pensavo solo a tornare in Italia. E ci sono tornato, per sei anni. Persino in prigione in Italia si sta meglio che qua». I racconti della traversata, quando «sulla barca si è tutti fratelli, tunisini, siriani, libici; poi si scende e nessuno conosce più nessuno». I racconti dei morti in mare, le donne violate. Il razzismo subìto. I tentativi di suicidio.
I nostri amici operatori guardano i più piccoli e non possono più trattenersi: «Capito cosa si rischia? Come fate a voler partire?». «L’espoir est 50%-50%», risponde uno, con gli occhi grandi. La speranza al 50% è meglio che nessuna speranza.
Ci guardiamo e pensiamo: un progetto di teatro? Davvero? Per cosa? Per chi? Serve a qualcosa? Ma poi ci torna alla mente di nuovo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Guardiamo i nostri amici, i loro ragazzi. D’accordo. Proviamoci ancora.
TRILL’GANG