Lampedusa Mirrors, TUNISIA: «Eppure Italia è una parola aperta»

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Domenica 26 ottobre 2014: in Tunisia ci sono le elezioni, e noi siamo qua.
Nel 2011 la rivoluzione che ha dato la stura alla fortissima vocazione democratica del popolo tunisino è stata poi frustrata dalla vittoria di Ennahda, il partito islamista, che ha deluso e anche un po’ spaventato i cittadini. Ma a questo turno Ennahda ha perso e ha riconosciuto la vittoria di Nidaa Tounes, in cui ora sono riposte le speranze di tutti i tunisini.
Beh, quasi tutti. Nei nostri incontri con i ragazzi dei quartieri più poveri non c’è speranza, né fiducia. E infatti nessuno di loro è andato a votare: «Non ci credo nella politica, tanto non cambia niente». Alla ripresa del laboratorio il lunedì successivo, non sono molti gli indici neri d’inchiostro tra i più giovani, prova dell’avvenuta votazione.

In compenso sono molti i ragazzi al laboratorio, e aumentano ogni momento che passa: 8 all’inizio, 11 dopo mezz’ora, 14 il giorno dopo, cui si aggiungono i 15 professionisti con i quali abbiamo cominciato a lavorare la settimana scorsa. Diventeranno più di 40 al terzo giorno di lavoro.
I nostri partner sono stupefatti: non era scontato che la cosa funzionasse. I ragazzi entrano, guardano, applaudono, poi: «Possiamo provare?», chiedono. «Certo», rispondiamo. Gli adulti ci guardano come fossimo pazze. Il lavoro teatrale, si sa, ha bisogno di precisione, tempo, costanza e di una squadra compatta e non troppo numerosa. Qui invece gli ultimi arrivati si uniscono al gruppo a solo tre ore dallo spettacolo!
Effettivamente c’è un po’ di confusione all’inizio, ma va bene così. Si rassegnino i puristi: non c’è un unico metodo per costruire un percorso artistico con dei ragazzi, così come non c’è solo un modo per costruire ponti tra arte e realtà, ovvero non esiste un solo teatro, ne esistono mille.
Per esempio: a teatro esiste una cosa che si chiama coro e se il coro è compatto e il corifeo è generoso e attento, allora si è sempre pronti ad accogliere nuovi elementi.

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In questo i ragazzi e le ragazze sono straordinari e non è un modo di dire: sono uguali identici ai nostri adolescenti, eppure diversi. E così gli adulti. Lo stesso sentirsi incompresi, la stessa difficoltà di ascolto. E quando serve, quando il momento si avvicina, quando il gioco si fa duro, ogni volta scopri che i ragazzi non ti abbandonano mai. Gli adulti… Dipende.

In un viaggio di due settimane, la prima sembra durare un mese, la seconda fugge via che neanche te ne accorgi. È così che Lampedusa Mirrors si trasforma sotto i nostri occhi da progetto in spettacolo, da movimento del pensiero in teatro di corpi, di emozioni, di colori: le coreografie nate dalle loro e dalle nostre improvvisazioni e visioni sono forti ma semplici; le parole di Erri De Luca, William Shakespeare, Nicola Bonazzi e Roberto Roversi, in francese e in arabo, guidano e illuminano azioni in cui il singolo e il gruppo sono ugualmente necessari e continuamente confusi l’uno nell’altro.
In una corsa sul posto di 40 persone dai 12 ai 40 anni, c’è la vita di tutti i giorni che salta, ride, parte, sogna e cade.
In un arcipelago di corpi ammucchiati a terra ci sono i perché di chi parte o sogna di farlo: «Perché lo stato mi ha tradito, perché non mi fa paura niente, perché la routine mi uccide, per distruggere le frontiere».
In un sentiero di scarpe – scarpe da ragazzo, uguali a quelle che galleggiano sinistramente sull’acqua intorno a Lampedusa dopo un naufragio, ma uguali anche a quelle che riempiono a montagne le stanze ad Auschwitz – ci sono i fantasmi di chi non è mai arrivato, ma c’è anche un canto tradizionale da matrimonio, che dovrebbe essere allegro eppure fa piangere, un canto di 10 madri che vorrebbero trattenere il nostro Illyes, 18 anni, che si avventura sul mare come un funambolo sulla corda senza rete di sicurezza.

E poi, all’improvviso, è il momento: è giovedì 30 ottobre e sono state programmate due piccole performance in due quartieri popolari.

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A Hrairia dovremmo esibirci nel cortile all’aperto di un centro giovanile, ma, ci dicono, è molto pericoloso qui, perché da fuori tirano sassi, potrebbero far casino. Allora velocemente sgombriamo la palestrina del centro per cercare di farla somigliare a un teatro. I ragazzi passano lo straccio senza che nessuno glielo abbia chiesto. Non c’è tanto pubblico all’inizio, ma poi arriva: ragazzi dai 14 ai 25 anni, gli operatori del centro e un quindicenne che ci vuole conoscere e ci dice in italiano: «Io questo l’ho vissuto. Lampedusa, Italia, tre mesi». Qualcuno piange, qualcuno dice: «Ma cos’è, è teatro questo qui? Da dove venite voi?».

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Mass’Art invece è tutta un’altra cosa: si tratta di un garage trasformato in spazio performativo, che programma teatro, musica e cinema e ha un pubblico misto dai 3 agli 80 anni qualunque cosa proponga. Siccome lo spazio è piccolo, al pomeriggio montano una gradinata all’aperto in strada. «In strada» non è un modo di dire: la gradinata da 80 posti è montata proprio in mezzo alla strada e le macchine le girano intorno. Gli abitanti del quartiere lo sanno e ci stanno attenti; sollecitano anche chi passa di là a non fare troppo rumore quando c’è spettacolo.

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Si comincia, tutto esaurito in sala e fuori: finalmente i ragazzi sperimentano uno spazio teatrale, luci vere, buona amplificazione. Il sentiero di scarpe qui arriva fino alla strada, quasi fino ai piedini del bimbo di 8 anni ipnotizzato in prima fila. Chissà se voterà, lui, fra qualche anno. Chissà se la Tunisia, faro ed esempio di democrazia per i paesi arabi – o almeno questo sperano gli europei – potrà riconquistare i suoi giovani. Chissà se lo potrà l’Italia.

Le coste del Mediterraneo si dividono in due, di partenza e di arrivo, però senza pareggio.
Più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco,
toccano Italia meno vite, di quante salirono a bordo.
A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa.
Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria.

(Erri De Luca)

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