TIRANA, Aldilà dei lunghi inverni
In un dormiveglia per quarantasette anni. Mentre l’occidente mitteleuropeo metteva in moto la contraddittoria rinascita del dopoguerra – la piramide industriale, le case da arredare sicure e plastiche, le buste paghe tutti i mesi, la catena di montaggio per lenire le persone, il grande scacco matto della globalizzazione di cui ora raccogliamo i fasti deserti – questa nazione rimaneva dormiente, come le migliaia di bunker disseminati dal dittatore dove ora pascolano tacchini e pecore, poi rivenduti a testa in giù per un pranzo mensile sulle strade che non conoscono livelle, e asfalto. Come se due intere generazioni fossero in un memento perenne, una perdita di memoria.
Qui non si poteva uscire, nessuno, dalla frontiera. Come se lo scambio interculturale potesse portare a capire appunto, la follia di un militare accecato da tutte le possibili correnti glaciali comuniste.
Ora, qui, la fibra ottica è come oro e legata ad ogni periferica possibile, per connettersi ad un mondo che tralascia i colori, le corse, i caffè in strada. Le luci d’occidente con le grandi firme a un euro dove solo il nome conta più di ogni istrionica bellezza.
Qui, ora, le generazioni hanno un respiro primo, i colori delle case di Tirana hanno speranza, viene chiesto – forse a loro insaputa – a questo paese di fare ciò che l’occidente ha fallito tempo addietro. Fare della bellezza e della comunità sociale un equilibrio tra fatica e costanza, fra sorrisi e qualità, il morale del cuore contro l’affamato potere che dimora in noi. Viene chiesto di farcela, mattone su mattone, carta su carta, aprire alle mani giovani la possibilità del conviviale tra tutti noi. Noi umani che rimaniamo incantati su un canto di muezzin, su un androne dove si vende carne arrostita e pavlaka, ed un teatro che rilascia musica rock zingara.
L’amore è il cuore di tutte le cose.