ISTANBUL, Toccando la poesia
La bocca piena di more*, le mani cariche d’ira.
Arriviamo a Istanbul nel momento in cui la notte diviene mattino, trapasso dell’istante, dalle ore del bus da Skopje, sino a trovarci in uno dei tanti anelli circolari cosmopoliti che questa metropoli-storia avvolge in milioni di abitanti – città-quartiere, etnia vivida, sino giù sul Bosforo, come un profumo rampicante, un albero secolare, un dolore unico – come una piazza eterna e piena. E ribelle.
Arriviamo a piazza Taksim, nel quartiere Beyoğlu, e i colori della metropoli ci assaltano, cibo da strada, pubblicità occidentale, mischiati al liscio marmo bianco dei palazzi delle ambasciate.
E poi i canti.
I canti lamentosi ed armonici ad ogni moschea, piccole, nascoste, adornate e semplici. Ad ogni salita, a volte quasi ad ogni passo, uomini che si lavano piano i piedi, chinati e silenziosi: dentro, il canto è preghiera. Qui si ha l’impressione che la religione sia risorsa, sia rispetto del sacro. Qui, la lettura coranica non prevede mitra, giustizie occidentali, guerre sante. Le parole coraniche non prevedono stragi, il libro sacro è rispettato – è l’uomo che devia il corso dei testi, così avviene e avvenne per Cristo e l’impero occidentale della grande chiesa – qui è ammansito e letto nel coraggio, nel saper pregare e soffrire. La bellezza è diversa in tutti noi, lì nasce il seme se lo si rispetta, del diverso.
Qui ci perdiamo nel soffitto splendido come il mare di Santa Sofia: scendi per i tram e fai a pugni con te stesso quando vedi il turismo che mette in vetrina un anziana tirar sulla campana la yufka, e il dono di saper far cibo, e dietro l’angolo bimbi con labbra gonfie, arrossate, affamate.
Fai a pugni perdendoti nel tramonto del Bosforo, pensi che qui si muore e si rinasce ogni giorno. Ogni giorno si ritorna alla vita. Il caos è sovrano, i ragazzi nei quartieri non possono bere birra e alcolici all’aperto – piccoli sismi di follie di Erdogan e della sua cricca destinata, o a soffocare il nuovo, o a cadere – ma hanno coraggio, facce vive, come appunto i musulmani che lasciano le scarpe ai bordi del marmo per entrare a pregare. Vi è coraggio nei turchi, coraggio singolo, del nuovo. Sintomo di conoscere bene da dove si viene, da dove si viene nel vero.
Qui tocchi la poesia, capisci perché Hikmet non aveva bisogno di labirinti di versi, ma parlava di un popolo. Capisci come un poeta ribelle e rivoluzionario è stato stupidamente accostato alle poesia d’amore sugli scaffali Coop, sugli scaffali Mondadori.
Qui il coraggio è amare, è lottare con una maglietta colorata in un locale stretto, strettissimo e dal caffè nero. Il coraggio è fare galera, anni di galera per Nazim, e scrivere sempre e per sempre, come se si scrivesse ad un bambino, ad un contadino. Non rivedere mai la patria natia. E nel giorno che si ferma il cuore, amarla ancora.
Sono io capace di spogliarmi dei miei compromessi innumerevoli, rimanere me, e avere il coraggio di cantare come una stagione buona il marcio legale che investe la mia patria? Trovare così il coraggio di amarla?
Questo penso in silenzio, nel ritmico incidere ligneo che sbatte sull’acqua della chiatta che da Kadiköy mi riporta all’oro libero di Galata, dove dormirò protetto ancora una notte ancora.
*“La bocca piena di more” é il titolo di una plaquette di poesia autoprodotta, pubblicata da Gabriele Xella nel 2013.