KYRGYZSTAN – Bianco e oro

Bianco e oro sono i colori del mio Kyrgyzstan.

Bianco come la neve, caduta per giorni sulle strade, sugli alberi, sui cani randagi, sulla mia testa. Non credo di averne mai vista così tanta, così asciutta e fitta. Cade e ricopre tutto, veloce e muta.

Verso Altyn Arashan
Verso Altyn Arashan

Bianco come il silenzio che scende insieme alla neve.
Come quella mattina a Karakol in cui abbiamo camminato in mezzo alla strada come una pista da sci, il leggero scricchiolio degli scarponi, il fruscio delle poche auto, il mercato che c’è come ogni giorno, perché qui la vita è questa e va avanti nonostante tutto, ma nell’aria si sente qualcosa… è tensione, è una massa che si muove, è essere in una bolla fluttuante. Schiacciata.

Bianco come il freddo che fa male.
Perché ogni giorno inizia e finisce con il gelo e bisogna accettarlo, bisogna che ci si lasci accompagnare e far finta che non ci stia mordendo, no, non sta mordendo.
E il peggior freddo è quello patito in viaggio, in auto o in autobus: sono lì, ferma, incastrata tra altri passeggeri, non posso muovermi per scaldarmi e i piedi lentamente si congelano e cerco di muoverli, ma non li sento; tolgo gli scarponi, li massaggio… tolgo il piumino, con numeri da contorsionista infilo i piedi nelle maniche in cerca di calore, il cappuccio tirato sulla pancia, abbracciato.
L’autista fuma come un turco e ogni dieci minuti tira giù il finestrino ed è un’onda gelida che parte dai piedi e risale come un pugno sotto il mento e mi sveglia e mi agito e mugugno. Il berretto di lana tirato giù fino al naso. Le parolacce bisbigliate.

Bianco come il vapore che esce dai bagni termali di Altyn Arashan, un villaggio a cinque ore di cammino da Karakol dove io e i miei compagni di viaggio abbiamo trovato il Sogno kyrgyzo, fatto di monti, neve immacolata e un fuoco di legna in una casetta di legno. Senza elettricità, riscaldamento o acqua corrente. La nostra luce è il sole e, quando scende, si accende la luna, una candela e una lampada ad olio; il calore è il fuoco nella stufa: un cuore magico al centro della casa con cui cuciniamo, asciughiamo i vestiti gelati, scaldiamo il soggiorno e la camera da letto. C’è solo un sottile muro che separa le due stanze e in esso è incastrata la stufa: così anche da dietro, verso la camera, scalda lievemente. Alimentarla è un lavoro, una vera questione di sopravvivenza.
L’acqua corrente semplicemente non c’è: si beve l’acqua del fiume e ci si lava nelle piscine termali.
Ce ne sono quattro, sono molto semplici, di sasso, chiuse dentro a delle capanne di legno: appena apro la porta sono investita da una nuvola di vapore che mi acceca, l’acqua è caldissima, mi spoglio, entro e posso restarci per ore guardando le travi sconnesse del soffitto, cercando in alto aria fredda da respirare.

Bianco come la luna piena nelle notti insonni ad Arashan. Una luce così forte da rischiarare valle innevata e montagne a mezzanotte e me con l’asciugamano in mano, la calzamaglia di lana, bianca anche quella, e gli scarponi allacciati a metà; mentre cammino nella neve fino ai bagni e penso che la natura sia miracolosa perché ci sa dare luce e acqua bollente per alleviare il freddo.

Karakol road
Karakol road

E poi l’oro.

L’oro dei denti di Solphia quando mi sorride. E lo fa sempre, ogni volta che mi incontra… Una mattina l’ho osservata da lontano, nel cortile della casa in cui vive con uno dei quattro figli e i suoceri, la casa in cui alloggio ad Arslanbob, un villaggio uzbeko a nord di Osh.
È tutta indaffarata nei lavori quotidiani… porta da mangiare agli animali, pulisce la stalla, controlla i panni stesi e congelati, lava delle pentole, porta in cucina degli ortaggi che poi sbuccerà, taglierà e cucinerà in un vecchio paiolo.
Ora sta facendo il bucato. Fa la spola dalla cucina al cortile con dei grandi catini di acqua bollente, ha le maniche tirate su fino al gomito, una sciarpa di lana calda e colorata avvolta intorno alla testa. Le braccia sono bianche e rosse, congestionate. Il viso è rosso e accaldato dal lavoro, gli occhi seri e intenti, a tratti sofferenti. Butta le braccia nell’acqua fumante, risciacqua sotto l’acqua gelida. Ci sono forse 2 gradi. Non dico niente. La guardo con il cuore stretto. Sì, Solphia quando si gira e mi vede, mi sorride.

L’oro del tè e del miele spalmato sul pane.
Perché noi viaggiatori squattrinati, facciamo la spesa al mercato, compriamo mele e uova sulla strada e appena possibile mettiamo in disordine le cucine delle guesthouse che ci ospitano. Così per dieci giorni ci nutriamo con riso, minestre, carote, rape e cipolle, oat milk, a volte adattato a “oat water” perché il latte è caro, mele, albicocche più o meno secche e… miele. Tanto, tantissimo miele.

plov
Pelando cipolle per il nostro plov uzbeko nella guesthouse di Karakol

L’oro del cuore di Aurelien, che per una settimana è stato il mio fratellino francese.
Ho capito di voler viaggiare con lui quella prima mattina nell’ostello di Bishkek quando Ralph, il suo compagno di viaggio, lo prendeva in giro perché aveva riso nel sonno e allora lui: “Ti ricordi quella volta che ho cantato nel sonno? Poi ho avuto un’energia bellissima tutto il giorno, probabilmente le cose sono connesse!” Ecco, uno che pensa e dice una cosa così, per me, ha una magia dentro… Così il giorno dopo partiamo, io, Aurelien e i due belgi, Simon e Yannik, e insieme andiamo a Karakol, ad Arashan e poi ancora sul lago Issik-kul e di nuovo a Bishkek. Su e giù per passi d’alta quota micidiali, foreste e steppa gelata disseminata di cavalli e qualche resto di yurta estiva abbandonata dalle famiglie di pastori in cerca di mura più calde. Camminiamo nella neve verso nord senza sapere esattamente cosa troveremo e ci sembra di essere in una favola dei fratelli Grimm. E parliamo, tacciamo, guardiamo il fuoco e sogniamo a occhi aperti come bambini…

Aurelien è quello che esce per comprare un paio di scarpe per la neve in Kyrgyzstan e torna entusiasta mostrandomi un paio di stivali di gomma e mi spiega che era indeciso, ma ha scelto proprio quelli perché saranno perfetti anche nella foresta pluviale e nelle risaie e imita un inchino con una gamba sollevata dietro, il gesto di svuotamento degli stivali che ha imparato in Costa Rica.
È il ragazzo di 22 anni che un giorno decide di voler vedere come vive il mondo, allora prende la sua bicicletta e inizia a pedalare. Passa anche dall’Italia dove impara a riciclare il cibo scartato dai supermercati, recuperando i prodotti appena prima che finiscano nei cassonetti “perché non hai idea di quanto cibo buono venga buttato!”
In Italia impara subito le parole “povero piccolino!” che tante persone gli rivolgono mentre pedala, lo scorso gelido febbraio, negli appennini e si chiede “si, povero piccolino… ma perché nessuno mi invitava a entrare in casa a bere qualcosa di caldo?!” (oh poveri noi e la nostra paura dello sconosciuto!)

Aurelien
Aurelien e il vasetto di miele (vuoto)

Un cuore d’oro che parla con chiunque incontra, che ride e sorride, che viaggia con uno zaino che si è costruito da solo, con un cappello di lana cardata, una chitarra, un didgeridoo e che lavora all’uncinetto. Un cuore d’oro che quasi mi fa piangere quella sera in cui regala a Sasha, il custode di Arashan, un portamonete fatto da lui e Sasha lo guarda sorpreso, se lo rigira tra le mani tra l’allibito e il commosso e Aurelien gli mostra come aprirlo e chiuderlo, Sasha dice “Spasiba, spasiba Auri” e corre felice a mostrarlo alla moglie.

E anche quel portamonete è in realtà un pezzettino d’oro… uno di quei pezzettini d’oro che le persone come Aurelien regalano a chi hanno accanto, a volte senza saperlo.

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