INDIA, Il Guru e il Canto
Se c’è una cosa che mi fa vibrare e mi fa sentire padrona assoluta di questa mia piccola e confusa persona sono le curve improvvise, le occasioni afferrate con gesto istintivo e quelle che capitano per il solo lasciarsi scivolare.
Stasera vorrei raccontarti due storie: la storia di un Guru e la storia di un canto.
Storie vissute in terra indiana, in due città sacre: poco importa quali, perché ogni grano di terra indiana è sacro, anche il più lurido e secco.
La storia del Guru inizia su una strada con una lotta, coltello tra i denti, con i soliti furbi autisti di rickshaw. Dopo venti minuti di accesa trattativa fatta di sorrisi sardonici e silenzi offesi, fermo e coinvolgo i primi due passanti che, ancora mezzo addormentati, accettano di condividere il tragitto.
«Ciao! Dove state andando?»
«Da Mooji e tu?» La voce sotto dell’autista esclama: «Everybody go to Mooji today!» e scoppia in una risata fragorosa.
«Vado ad Haridwar» dico io, poi lascio finire il concerto di clacson e chiedo «Scusa ma…chi è Mooji?»
«Non sai chi è Mooji? È un Guru! Oggi inizia il suo Satsang».
Osservo le numerose persone che camminano sul ciglio della strada correndo il concreto rischio di essere investite e scaraventate direttamente nel Gange e intanto penso che io non so nemmeno cosa sia un Satsang.
«Scusa ma non me ne intendo molto… Cosa succede durante un Satsang?».
«Il Guru si siede e risponde alle domande che gli facciamo. È straordinario!».
Il rickshaw rallenta e si ferma di fronte all’ingresso di un ashram dove si sta già formando una coda di giovani occidentali.
«Sai, siamo venuti apposta dalla Slovenia per lui!».
Lo guardo bene. Guardo il sorriso estasiato dell’amico.
«Ok, I come with you!».
Manca più di un’ora all’apertura del cancello dell’ashram, abbiamo tempo per bere un chai e conoscerci. Sono dannatamente curiosa. L’idea che due cineoperatori di Lubiana trascorreranno cinque settimane a Rishikesh e soltanto a Rishikesh («perché l’India è sporca e non ci interessa») per ascoltare per due ore al giorno un Guru giamaicano mi fa impazzire.
«Come lo hai conosciuto? Perché per te è così importante?».
«Ero in un periodo di depressione e cercavo una nuova strada da seguire. Ho iniziato a navigare nel web e ho trovato Mooji. Da allora l’ho sempre seguito, da casa via internet e per il mondo e… la mia vita è migliorata».
«È stato così anche per te?», chiedo all’amico.
«Non ricordo esattamente… Si, si, me ne ha parlato proprio lui per la prima volta. Non sono così fissato, ma mi piace la sua semplicità e la chiarezza con cui indica la via della conoscenza di se. Ti aiuta».
«Ancora non capisco. Che cosa predica? C’è una religione di fondo?».
«No no!».
«È una filosofia?».
«No assolutamente! È solamente… Mooji».
«Voi credete in Dio? Siete cristiani?».
«No, ah ah ah! veniamo da famiglie comuniste atee, non conosciamo Dio!».
Aspettiamo l’arrivo di Mooji altre due ore, in uno stanzone ampio e silenzioso; una signora vestita di bianco dà il benvenuto e invita tutti a non comunicare e tenere un comportamento consono. Suona una musica morbida e malinconica, la sala è gremita di volti seri. Alcuni ragazzi dello staff girano a passo felpato mostrando dei cartelli con scritto be silent please, no talk, free seat, quest’ultimo accompagnato da un gesto del braccio ad indicare la sedia o l’angolo di tappeto libero. Poi finalmente il silenzio assoluto, la porta che si apre e Mooji entra nella sala.
È un uomo di mezza età, inconfondibilmente giamaicano con la sua pelle scura e i lunghi dreadlocks neri. Si avvicina piano alla sua poltrona, osserva tutti, uno ad uno se possibile, con una lentezza e un’attenzione commoventi. Sorridono le sue labbra, sorridono i suoi occhi.
Dopo un breve discorso di ringraziamento, invita i presenti a farsi avanti con le domande e il primo ad alzarsi è un uomo di sessant’anni, probabilmente del Nord Europa. Si avvicina ad uno dei microfoni distribuiti in punti specifici della sala, saluta quasi sottovoce ed è così emozionato da non riuscire a dire altro. Si sentono i suoi respiri profondi e anche se lo vedo di spalle, vedo le sue lacrime. Sta lì in piedi, le braccia distese lungo i fianchi e la testa bassa e respira quasi in affanno. Regna un silenzio pesantissimo che mi preme sul collo.
La seconda è una signora inglese, piccola di statura, dai corti capelli neri e movenze gentili. Ci racconta che medita da trentacinque anni ma non riesce a fermare la mente e ad avere quel momento di chiarezza del sé che è l’obiettivo ultimo di tutti i meditanti. Mooji le risponde con dolcezza ma per ogni risposta la signora ha un’altra domanda e decide di invitarla sul palco per averla più vicina. Mi intenerisce questa donna acuta, intelligente e vedo la sua mente vivace che si sforza di acquietarsi ma le è impedito dalla sua stessa natura. Cerca il suo centro con una volontà tale che cercandolo, lo allontana. Come se cercasse un brillante caduto nella sabbia e invece che fermarsi immobile a osservare attentamente aspettando il luccichio, scavasse con vigore spostando sabbia su sabbia, nascondendo ciò che è lì davanti ai suoi occhi.
«Ciò che è perenne non cambia, c’è sempre ed è qui e ora, non è qualcosa che deve accadere», le dice Mooji. Mi piace perché la ascolta e vuole arrivare a lei con sincerità: si sente il suo sforzo nel cercare le parole migliori per suggerirle verità ai suoi occhi palesi. Ciò nonostante non riesce a convincerla e le chiede di tornare l’indomani: «Perché voglio che andiate via di qui senza ombra di dubbio alcuno. Solo per questo sono qui: per dileguare i vostri dubbi».
La terza è una donna, forse spagnola a giudicare dall’accento, sulla trentina, timida, confusa. Dice di averlo incontrato per la prima volta sei anni fa ma allora non lo aveva visto.
«Even if I couldn’t SEE you, I followed you all this time and now…now I CAN SEE you. So now, I want to know: can you see ME?».
Perfino il Guru è perplesso, ma con maestria se la cava con una risposta vaghissima e intendibile da ognuno. Ognuno a modo suo.
Inizio ad essere stanca di questa tensione, mi giro e rigiro sulla sedia, accavallo e scavallo le gambe… Meglio uscire a prendere una boccata d’aria. Cammino al sole, la testa bassa e piena di pensieri rumorosi. Faccio fatica! Faccio fatica a capire questa devozione fatta di inchini e lacrime di fronte ad un uomo il cui lampante valore è l’umanità, la semplicità, la cui presenza è così reale e terrena. Vedo in queste persone una tristezza di fondo, la testimonianza viva che ognuno di noi ha bisogno di riempire il vuoto di una vita sempre più mutilata dal materialismo, dal consumismo e da qualsivoglia ideologia che nell’ultimo secolo ci ha allontanato dalla nostra religione, o comunque dai valori ad essa legati, i valori più semplici e umani. Gli amici sloveni mi dicono che non è una religione: che cos’è dunque? Cosa sono questo silenzio contemplativo e queste prostrazioni commosse? Mi sembra piccola la differenza tra i gesti di queste persone e quelle di fedeli cristiani in una chiesa o musulmani in una moschea. Cambiano i rituali, ma la fede negli occhi è identica.
Mi trovo davanti, anzi, in mezzo ad una generazione di occidentali che si sta perdendo. Sta perdendo il contatto con il terreno da cui è germinata e fluttua acciecata, in cerca di quei valori che sembra non possano più appartenere al sistema di vita, in superficie liberale ma nel profondo tragicamente soverchiante, che ci ricorda ogni giorno che o ti adatti o sei fuori. E quando sei fuori, dove vai? Cosa fai? Forse è vero, o almeno per qualcuno lo è: ti tocca arrivare fino in un ashram indiano per sentirti di nuovo parte di qualcosa di vivo, parte di un gruppo, per conoscere e riconoscerti nello sconosciuto seduto accanto a te che con il suo ginocchio tocca il tuo ginocchio, che canta e prega e balla e tace come te.
Mentre sto rientrando in sala, prende la parola un’euforica giovane dell’est Europa che esordisce con un «I don’t know nothing!», perché lei non sa nulla di Mooji e di un tale Śiva, ma dal momento in cui lo ha visto, Mooji e non Siva, in un video su internet, ha sentito una scossa bellissima… Sì, proprio una scossa bellissima, la stessa che mi scuote e mi dice che è giunto per me il momento di andare. Saluto gli sloveni, mi alzo ed esco silenziosamente… Ma non senza aver prima lanciato un ultimo, sorridente sguardo a quel briccone di Mooji.
La storia del Canto è una storia fatta di emozioni, difficilissima da raccontare e ti chiedo di aiutarmi. Prova ad immaginare un complesso di templi bianco, grande e bello, come in una favola. Appena varchi il cancello ti viene offerta una prasad, un pasto di riso e verdure, giallo di curcuma e caldo di spezie servito in una foglia di banano. Lasci le scarpe in un angolo e cammini sul marmo freddo, seguendo alcuni fedeli, seguendo una musica che sembra ti stia chiamando. La segui fino ad entrare in un piccolo tempio, i piedi nudi su un tiepido tappeto rosso e questa musica dolce che è rapimento e ti fa alzare gli occhi al soffitto in cerca di una luce, di una stella, di un mistero, di un Dio. Ci sono cinque donne, sedute per terra in semicerchio, a gambe incrociate, suonano e cantano l’Hare Krishna e tu ti siedi poco più in là e le guardi. Le guardi così intensamente e senti il canto così intensamente che anche loro vedono che ci stai cadendo dentro. Ti fanno gesto di avvicinarti, senza smettere di cantare, con un sorriso ti porgono delle nacchere e in pochi istanti ti trovi ad allargare il cerchio. Inizi a cantare, e canti per ore, con gli occhi socchiusi, le spalle che ondeggiano e seguono il ritmo che accelera, come se non potessi farne a meno, come se lo avessi sempre fatto.