IRAN – La mina
Quella volta che arrivai a Kashan il sole non era ancora sorto.
Le 5.00 di un fresco mattino di novembre, in mezzo ad una rotonda, scaricata in tutta fretta da un autobus assonnato.
Ci sono due taxi parcheggiati, sembrano aspettarci… Mi fiondo verso il tassista più vicino e gli chiedo se conosce quella pensione, quel nome difficile che mi sono copiata sul taccuino per averlo sotto mano… Sì, la conosce e mi fa intendere che non è un buon posto, ma è notte, sono stanca e ho solo un altro nome a disposizione. Sul sedile davanti, un altro passeggero che non fiata. Arriviamo ad un’altra rotonda, il tassista accosta e scende a suonare il campanello di un portone. Una grata di ferro, il silenzio. Le strade della città sono deserte e sembra deserta anche la pensione… Allora torna in macchina e inizia ad elencarmi altri nomi di alberghi ma io non so come siano, dove siano… “I don’t know, please take me wherever but, you know, I have little money” [Non so, portami dove vuoi per favore, ma sappi che ho pochi soldi. N.d.R.], “Ok ok” e ripartiamo su queste strade buie e silenziose.
Bussiamo ad una porta: nessuna risposta. Spingiamo un portone, saliamo una scala, c’è una porta a vetri… Bussa con forza, un ragazzo esce da una stanza sfregandosi gli occhi. Quando ci mette a fuoco fa gesto di no, non ci può aprire… Il mio tassista mi indica, immagino gli dica “Ma dai, è una ragazza da sola”, ma nulla lo smuove e con passo incerto torna a dormire. Riproviamo. Un altro campanello, un uomo dorme sul divano di una reception, sbarra gli occhi con fastidio quando ci sente, mi squadra e dice NO. Non proviamo nemmeno ad insistere. Un altro uscio, questa volta aperto… Un pianerottolo con cinque porte, sembra non ci sia nessuno finché un uomo con due folti baffi neri e un consunto pigiama bianco apre una porta. Un botta e risposta in persiano e si infila in bagno. Il mio amico scuote ancora una volta la testa e mi fa cenno di andare. È tutto chiuso, la X che disegna con le braccia vuol dire che gli alberghi sono chiusi, alle 5 del mattino non c’è speranza di trovare una stanza. “You come to my house. Sleep in my house.” [Vieni a casa mia. Dormi a casa mia. N.d.R.] Non lo so. Inizio a pensare che sia l’unica possibilità… Anzi, no: potrei aspettare su quei gradini che una reception apra, forse tra due ore, forse solo una. Lui non vuole, dice che non va bene, non può lasciarmi così sulla strada. L’altro passeggero continua a tacere, paziente.
Ora Cyrus, il mio autista e, presto, amico, si ferma in una stradina, apre un portone, mi fa cenno di scendere dall’auto… È buio ma in un attimo si accende una lucina, si apre una porta e una grossa signora sorridente mi accoglie, sistemandosi i capelli. È Esmat, la moglie di Cyrus, e questa è casa sua… È ora di portar dentro il mio zaino e lasciar fuori ogni diffidenza.
Mi viene preparato un giaciglio con una coperta piegata in quattro e distesa sul tappeto del soggiorno, un cuscino rubato al divano… Lascio le mie cose in un angolo e mi abbandono a terra con un senso di calore e dolcezza morbido come la coperta in cui mi avvolgo.
Mentre mi addormento, una giovane donna che intravedo a malapena nella penombra mi viene accanto, mi saluta con un sorriso e, inginocchiatasi rivolta alla Mecca, inizia a bisbigliare la preghiera del mattino.
Al risveglio scopro che la donna della preghiera è Mahadi, una delle figlie di Cyrus, che sul tappeto c’è un altro bozzolo che ancora dorme, Hossein, figlio di Cyrus, e che una bimba di quattro anni con due immensi occhi neri mi osserva.
Mi alzo piano, sento i sorrisi e capisco che cosa bella mi è successa poche ore fa.
Una cosa che è una mina che fa saltare in aria una volta per tutte quell’ammasso di rottami arrugginiti che sono i pregiudizi, i falsi giudizi, l’infondato che genera odio e paura.
Una porta che si apre può spazzar via tutto questo.
Una porta che si apre fa più rumore di una porta che sbatte.
Conosco l’intera famiglia di Cyrus, le figlie, i loro mariti, i nipoti, la sorella e la sua famiglia, le vicine che vengono a conoscere e stringere la mano a questa ragazza che arriva dall’Italia. Cyrus mi porta a visitare Abyaneh, un antico villaggio fatto interamente di fango, i cui abitanti indossano degli abiti unici in Iran: gli uomini dei larghi pantaloni neri stretti alle caviglie che mi ricordano tanto l’India, le donne dei foulard bianchi con disegnati dei fiori coloratissimi. Un’altra particolarità del paese sono gli usci dei portoni: sono due, di diversa forma, uno sul battente di destra e uno su quello di sinistra. Cyrus mi spiega che emettono rumori diversi e uno è destinato agli uomini, uno alle donne, in modo che gli abitanti della casa sappiano che ospite è alla porta.
Cammino su e giù per i vicoli, mi arrampico su un promontorio e osservo dall’alto le famiglie che si riuniscono per il picnic della domenica sulla riva di un torrente.
Guidiamo nei monti Zagros e respiro la potenza della libertà e la bellezza di questo pezzo di mondo. Lungo la strada incontriamo un gruppo di ragazzi che balla a braccia aperte in mezzo alla strada e, quando ci vedono passare, fanno un gesto come ad invitarci e ridiamo forte e non mi sembra vero perché è troppo bello.
Più avanti un ragazzo vende melograni enormi in piccoli secchielli verdi. Sembra di sgranocchiare rubini lucenti. Ne compriamo un grande sacco da portare a casa.
I pasti in casa di Cyrus mi ricordano i banchetti degli antichi romani. Esmat stende sul tappeto una tovaglia stretta e lunga e la copre di ciotole piene di pietanze di ogni tipo. Cyrus mangia sdraiato sul fianco, un cuscino sotto il gomito mentre Esmat, immensa, fa fatica a star seduta a terra e si scusa appoggiando la schiena al muro. Qualche volta Cyrus la prende in giro con affetto. Beviamo tè, mangiamo riso, pollo in umido, kebab. La mattina Hossein esce a comprare il pane appena sfornato, quello che assomiglia alla schiacciata toscana ma con semi di sesamo invece che olio d’oliva. Una sera mi fermo a comprarlo con Cyrus: il pane del pomeriggio è senza sesamo, i panettieri sfornano questi grandi “fogli” di pane fumante e li lasciano scivolare dalle pale da forno direttamente su un tavolo all’aperto. Io e Cyrus prendiamo due grandi sacchetti di plastica e li riempiamo con dieci pani caldi, fino a scoppiare. Accanto a noi, un uomo in bicicletta con il suo bambino nel cestino davanti e dietro una borsa straripante profumo e fumo.
Malike è la figlia maggiore di Cyrus, è sposata con un sergente dell’esercito e ha due bambini: Darius Ali e Mohamed. Darius è il maggiore e ha due grandi occhi neri che sono pozzi di intelligenza e dolcezza, Mohamed è un piccolo diavoletto capace di divorare venti cioccolatini in una serata, disseminarne le carte per la casa e avventarsi sulla madre se qualcosa non gli va a genio. Malike parla un buon inglese, ne è orgogliosa e si sente investita del compito di farmi domande e soprattutto di spiegarmi l’Iran e insegnarmi il persiano. Mi spiega la divisione tra Sunniti e Sciiti e scrive sul mio taccuino i nomi dei dodici Imam che hanno succeduto Maometto. Mi istruisce sul calendario Shamsi, secondo il quale siamo nell’anno 1391 e imparo che il primo mese è il Farvardin e inizia il 20 marzo.
Per la prima volta in casa di Cyrus vedo una donna iraniana senza velo, con le braccia nude e i capelli sciolti. Tra le quattro mura siamo identiche, le donne si muovono con libertà, parlano, scherzano, spesso tengono “in riga” gli uomini.
Quando però suona il campanello, è Hossein ad andare a vedere chi è alla porta perché a Kashan non ci sono i due usci come ad Abyaneh e le donne in casa attendono: se si tratta di un uomo corrono a prendere il velo e si coprono la testa. Anche nelle foto devono sempre apparire con il capo coperto e quando mi vedono sconcertata mi ricordano la legge: “You know, we are muslim wives…” [Sai, siamo mogli musulmane… N.d.R.] C’è una sorta di rassegnazione nelle loro parole, perché Mahadi e Malike sono anticonformiste e in un sussurro mi confidano di non amare né il loro presidente [All’epoca: Mahmud Ahmadinejād N.d.R.], né il rigore ortodosso di oggi, ma me lo dicono piano, quando siamo sole, perché non sta bene pensarla così.
La mina, quando scoppia, fa saltare in aria i rottami e si disfa in tante schegge che non si sa mai dove vanno a ficcarsi.