DJIBOUTI, Sogno alcolico-scolastico per geografi

La descrizione della terra, se da una parte rimanda
alla descrizione del cielo e del cosmo, dall’altra
rimanda alla propria geografia interiore.
Italo Calvino, Collezione di sabbia

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La vernice stesa poche ore prima sui muri delle aule è già quasi asciutta. Il buon odore di imbiancatura fresca inganna i sensi, rimandando a un fresco che non c’è: il sole, qui, se ne frega dei tempi di asciugatura noti a tutti gli operai. Ma i muratori, almeno in questo caso, sono più contenti: prima si asciuga la vernice, prima finiscono le tinteggiature. Erano meno contenti quando, sotto al sole, erano alle prese con il cemento: loro, in un certo senso, sono stati i primi allievi della scuola, impegnati a risolvere problemi di “matematica idraulica”, sommando decine di ore di lavoro a centinaia di ettolitri d’acqua buttati sul cemento e sui muri, facendo ben attenzione a che non asciugasse troppo velocemente. L’unico sollievo era farsi un gavettone ogni tanto, così, senza smettere di lavorare, giusto per non friggersi troppo la testa. Però ci si sta avvicinando alla fine lavori: la nuova Scuola Miriam è quasi terminata.
Dopo anni di impegno di molti, sia a Gibuti sia in Italia, per richiedere e ottenere permessi, trovare fondi, lottare con difficoltà e ostacoli, numerosi e rognosi quanto le pulci su un dromedario, finalmente si è vicini a fine lavori.
Quasi vicini.

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Ora rimangono altre “piccole” cose quali l’allacciamento alla linea elettrica e all’acqua, richiesti già mesi fa; poi, per gli operai e i tecnici coinvolti ora nel cantiere, c’è l’impegno di osservare il Ramadan, che già è gravoso in paesi dal clima più o meno normale, ma è a rischio collasso nella fornace del luglio gibutino. In seguito, ci sarà anche l’allestimento con le lavagne e i banchi inviati dall’Italia e l’inaugurazione, ma questa è una storia che deve ancora arrivare. Certo, l’aspetto generale degli ambienti nella scuola è ancora abbastanza vuoto: mancano ancora porte e finestre, i fili elettrici attendono che fioriscano le lampade e gli interruttori, e manca anche altro. Ma non importa, è già bella così: mi basta fare il paragone con le lamiere roventi e ammaccate di cui è fatta l’altra scuola, l’attuale, fondata nel 2002, che ostenta orgogliosamente il suo motto su un’ insegna dipinta a mano: «L’éducation…vie meilleure», cioè: «Dall’istruzione viene una vita migliore».

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Ho letto quella frase una sola volta tempo fa, ma la tengo a mente e l’ho a cuore. Sul tetto della scuola nuova, guardo lo skyline della baraccopoli nell’aria deformata dal caldo: osservo come quella vasta e impressionante moltitudine di baracche abbia quasi la volontà di irridere quel motto e abbattere l’insegna, tanto è il contrasto apparente tra i trecentomila abitanti e i trecento allievi, tutti accomunati dalla nascita in un posto “sbagliato”.

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Con la fantasia e la memoria delle mie mappe, vedo a volo d’aquila la baraccopoli sempre più lontana e piccola, poi la città di Gibuti, poi il Corno d’Africa, tutto il continente e infine il mondo in orbita. Ecco, ho conferma da quassù di quanto la mia personale geografia interiore mi aveva già detto: quella nuova scuola costata tanto a molti non è certo la “nostra”scuola, cioè non è di Crewforafrica Onlus così come non lo è, in fondo, né degli insegnanti e, forse, neppure dei bimbi che la frequentano.
Quando qualsiasi cosa, modificando il punto di vista risulta rimpicciolita e allo stesso tempo collegata con quanto le è vicino, ecco che quella cosa perde la sua pretesa d’indipendenza e di identità unica. Diventa qualcos’altro, seguendo una logica diversa: è una parte del tutto, senza la quale il tutto non sarebbe completo. Ecco perché quel motto, e la scuola che rappresenta, non stridono contro l’immensità violenta e lacera da cui sono circondati: i trecentomila della baraccopoli hanno bisogno dei trecento allievi della piccola scuola. La piccola scuola è la coraggiosa opportunità per i trecento allievi di dimostrare a se stessi e alla baraccopoli (da cui provengono) che «dall’istruzione viene una vita migliore».
C’è un’unica cosa che ora non posso vedere dall’alto, ma che mi piacerebbe molto sapere: se tra quindici, cinquanta o centoventi anni , tra i bimbi e le bimbe usciti da quella scuoletta ci saranno dei nuovi Léopold Sédar Senghor, Thomas Sankara, Nelson Mandela o Malala Yousafzai, anime di cui ci sarà sempre un urgente bisogno.
Ma forse la terza birra ghiacciata etiopica di stasera mi sta facendo sognare troppo.

Tuttavia, mi chiedo cosa ne sia di un uomo
o di una donna, quando nessuna falena si affaccia
sul loro stato di essere pensanti, sulla loro notte,
sull’universo della loro creatività.
Nuruddin Farah, Rifugiati

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