verso DJIBOUTI, Caricatori di porto

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Il momento è arrivato: si può stivare il container in partenza dall’Italia con quanto si era desiderato, poi chiesto all’Universo, quindi trovato perché offerto e infine raccolto. Dieci mesi passati alla ricerca di quanto serve “inafricadovevaitu”.

Il quanto serve a Djibouti è spesso il non serve più in Italia, ma va bene così, perché saper valutare quando serve ancora fa parte del gioco della fratellitudine. E a me questo gioco piace, anche quando si fa duro a tal punto che temo non basti un container intero. Allora preferisco prendere il più grande, lungo 12 metri e largo 2 e 40, ma con il soffitto più alto (2 metri e 60 circa), per 76 metri cubi garantiti: un bel parallelepipedo, che ci divertiremo a riempire. Speriamo davvero che basti, con quello che costa, altrimenti sarò costretto a scegliere cosa spedire e cosa no. In realtà, per ragioni di sicurezza, non possiamo caricarlo io e Sal, ma siamo ugualmente andati a La Spezia, nell’eventualità di una sofferta decisione sulle priorità di carico. Visto il contenuto umanitario della spedizione, abbiamo ottenuto di poter assistere allo stivaggio, proprio per poter affrontare direttamente il discorso sulle priorità.

Dopo essere passati dagli uffici per avvisare del nostro arrivo, raggiungiamo il piazzale dove, vicino al nostro container ancora vuoto, ci aspettano due elementi fidati. Sono i veri archetipi degli scaricatori di porto, presi direttamente dai libri d’avventura della mia infanzia (mi son sempre chiesto se gli scaricatori sono anche caricatori, oggi scopro che sì, lo sono…). Ci presentiamo ma uno, per ora, non parla e l’altro parla, anzi urla, in dialetto spezzino stretto, del quale intuisco solo qualche parola. Il piazzale è rumoroso, pieno com’è di TIR e mega carrelli in movimento, quindi, per abitudine, si grida sempre. Quando capisce che io non capisco si sforza, sempre gridando, di iniziare la frase in italiano per poi finirla inevitabilmente in dialetto.

Nonostante tutto, comunichiamo e mi è davvero simpatico. Sa già che devono stivare più roba possibile perché destinata a progetti umanitari; questa cosa gli tocca il cuore perché, mi racconta – sempre urlando, anche se siamo dentro al magazzino – che è cresciuto (ed è stato maltrattato) in un collegio di frati. …Mah! Subito dopo, come tra soldati, mi mostra dal telefono le foto di sua moglie e di sua figlia. Io ricambio dando a entrambi una cartolina dell’onlus Crew for Africa, nella quale si mostra la Scuola Miriam.

Abbiamo socializzato a sufficienza, e finalmente si comincia a caricare: io mostro le priorità, lo spezzino grida e gesticola all’altro, che guida il muletto, mostrando dove e come mettere i bancali dentro al container. Il mulettista, che ovviamente sbraita anche lui, interloquisce con il suo collega bestemmiando in italiano – dall’inizio alla fine – e ogni tanto butta là qualche parola in veneto.

L’importante è capirsi.

A questo punto, sono pronto a fare la domanda fondamentale. Mi avvicino allo spezzino e gli grido educatamente in faccia: «SECONDO TEEE, CI STARÀ TUTTOOO? SAI, È IMPORTAAANTEEE! » Al che lui mi risponde: « SÌ, CI PENSO IO… SIETE BRAVI AD AIUTARE ‘STE PERSONE!».
Nelle successive tre ore caricano pacchi, spostano cartoni, incastrano banchi e sedie, salgono in cima ai bancali trovando nuovi spazi in sfida alla fisica per sfruttare tutto lo spazio in altezza, finché tutto è meravigliosamente stivato fino ai portelli!

Nel viaggio, io precederò quel container e tra una quindicina di giorni lo sdoganerò a Gibuti ripensando con gratitudine a D. e a N. perché quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare.

Le foto appaiono per gentile concessione di Salvatore di Stefano. Ulteriori informazioni, qui: blog e portfolio.

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6 pensieri riguardo “verso DJIBOUTI, Caricatori di porto

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