DJIBOUTI, Paradossi e teli di plastica (parte 1)

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L’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza.
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere (1947)

Nel buio della sala, onde fotoniche si infrangono sulle facce fisse dei clienti, sbiancandole a tratti con spruzzi di luce. Sullo schermo, onde schiumanti di mare furioso si disintegrano su scogli che restano neri. Poi l’inquadratura si sposta e mostra, al di qua del mare scosso, l’interno di una banchina d’attracco: si vedono imbarcazioni della guardia costiera e della marina militare, i cui equipaggi si adoperano per sbarcare dalle proprie navi o da barche malconce centinaia di donne, bambini e uomini, anche loro bastonati dal mare. Il cronista del notiziario riferisce già di migliaia di profughi, centinaia ogni giorno, in poco più di una settimana. Marinai, guardacoste e soccorritori a terra, però, sono tutti africani, mentre i naufraghi invece, sono quasi tutti di carnagione chiara.
Il filmato finisce con il vociare acceso dei presenti, ma già il servizio successivo mostra nuove immagini che scorrono con un surreale effetto fotografico di negativo e positivo, da camera oscura: ora, sulla costa di un altro paese, in un’altra banchina anch’essa circondata da un mare in tempesta, naufraghi quasi tutti africani sbarcano a terra, aiutati e soccorsi da guardacoste e marinai di pelle chiara.
Questo è ciò che trasmette in questi giorni il Journal Télévisé di Gibuti.
Perfino nei peggiori bar di Balbalà, dove il televisore LCD vale molto più di tutto il locale, si assiste dunque a questo “gioco” di bianco e nero, di negativo e positivo, dato dal colore della pelle di soccorritori e soccorsi. Prima vengono mostrate le immagini della grave crisi, ormai guerra, che nello Yemen sta costringendo la popolazione a fuggire con ogni mezzo, verso Gibuti che è a un tiro di sasso, oppure ovunque non ci sia guerra e violenza ma anche, addirittura, verso la Somalia, paese che, purtroppo, è ancora in conflitto sanguinoso con se stesso. E subito dopo la télé gibutina manda le immagini dei profughi, soprattutto africani, che scappando da guerra e miseria sbarcano, quando ce la fanno, sulle coste italiane.
Il contrasto del colore bianco/nero o positivo/negativo forse lo noto solo io. Gli yemeniti sono di carnagione chiara, soccorsi dai marinai e militari gibutini, scuri.
Per associazione di idee penso a quel romanzo di Abdourahman A. Waberi, Gli Stati Uniti d’Africa, in cui l’autore ribalta il mondo e l’Africa è una terra dove vogliono sbarcare emigranti dall’America e dall’Europa. La realtà, per ora, non è quella e, pur non volendo fare analisi geopolitiche in poche righe, quanto sta accadendo in Yemen non riguarda solo quel Paese, né come origine né come futuro.

Intanto, i clienti del ristorante, toccati da vicino, commentano vociando forte la notizia degli sbarchi di profughi yemeniti a Obock, costa nord di Gibuti. Il governo ha già predisposto risorse logistiche e di accoglienza per le migliaia di persone arrivate. L’impegno organizzativo e di forze per una nazione così piccola, per quanto aiutata anche da altri, è notevole, anche se non è la prima volta che vengono affrontate emergenze simili. Mi chiedo, però, cosa ne pensino di tutto questo gli abitanti nella baraccopoli: loro, naufraghi appiedati che cercano ogni giorno di scampare all’annegamento per miseria, da qui vedono in tivù spendere fortune che potrebbero credere siano tolte a loro. Alcuni so che lo pensano, così come so che altri, visto che il y a la guerre, là-bas [laggiù c’è la guerra], sono più comprensivi verso i rifugiati, sia gli attuali dallo Yemen, sia quelli somali, sistemati da anni in grandi campi profughi.

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Mentre mi trovo qui, dunque, in questo piccolo ristorante verandato in lamiera, con vista satellitare sul mondo, chiedo a Moussa, con cui ceno stasera, di tradurmi qualche commento. Infatti, qui, oltre al riso speziato alla somala servono in tavola anche analisi politiche cotte a puntino: «Gli europei e gli americani, gli USA, non hanno mai smesso di fare colonialismo qui da noi» o anche: «Intanto che litigano tra loro la Cina si sta comprando mezza Africa» oppure: «Continuano a venire a casa nostra a depredarci e a sorvegliare i loro traffici con la scusa del terrorismo».
Camerieri, clienti e, ovviamente, anche il cuoco impastano correttamente ciò che vedono dalla tivù, inchieste, notizie e reportage veri, con ciò che vedono nella loro realtà. Non proprio quello che succede con un certo giornalismo italico.
«È impressionante – dico a Moussa – come alcune vicende del mondo, osservate da sotto la veranda di chi le vive, abbiano un sapore diverso, di sicuro più autentico di quello falsato a cui, forse, alcuni ci vogliono abituare».
Ma continueremo questo discorso tra un po’: ci hanno portato il nostro riso speziato.

(fine prima parte)

 (seconda parte qui)

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