DJIBOUTI, Naufragare e scampare

Quello sguardo mi gridava addosso molto più di tanti altri lì vicino.
Mi fissava, sfidandomi senza paura così come senza timore aveva accorciato lo spazio verso di me. Mi sfidava, non si fidava ma comunque era in cerca di un contatto. Ora attendeva a distanza.
Non potei fare a meno di chiedere immediatamente la sua storia. Mi dissero che era stata trovata, lei rifiutata, in mezzo ai rifiuti, sola. Qualcuno l’aveva sentita piangere (immaginai un unico suono acuto di rabbia e protesta), l’aveva salvata e affidata a qualcun altro che poi l’aveva portata subito al centro d’accoglienza. Era sola anche adesso, senza fratelli o sorelle, isolata in quarantena. Altri piccoli giocavano sereni tra loro, in ambienti vicini, ma separati da lei.

Uno sguardo può raccontare molto se lo si sa leggere. Ci sono occhi come punte di freccia, che forano i timpani per quanto urlano il loro sconcerto: è lo sguardo incredulo di chi, senza saperlo, diventa un nemico per l’altro, è lo stupore buio di chi non si aspettava di perdere la libertà. Ci sono occhi come vasi crepati, che versano fuori l’angoscia di essere braccati in una guerra voluta da altri. Ci sono occhi fissi come finti occhi di una statua di cera, muti perché necessitano di non vedere più nulla, finché non usciranno dallo shock, se mai potranno. E poi, talvolta, ci sono gli occhi della sfida rabbiosa di chi è rimasto abbandonato, volutamente o no, occhi che dicono «sono solo ma ci sono ancora».
La prima volta che vidi degli sguardi così fu in Rwanda, molti anni fa, nella piccola clinica vicino al confine, tra i profughi scampati al genocidio. Erano soprattutto donne, bambini e anziani, le solite vittime prevalenti delle guerre. Sguardi simili li ho rivisti ancora in alcuni pazienti traumatizzati, lavorando in rianimazione o in ambulanza in Italia.

Io e lei ci fissammo di nuovo, probabilmente valutando entrambi il da farsi.
Le altre gabbie ospitavano due, tre o più micini, tutte cucciolate rinnegate dagli “umani”. Riconosco alcuni di quegli sguardi anche negli animali, in determinate condizioni. Non sto umanizzando i gattini né “animalizzando” i bambini africani. Noto solo sguardi simili per dolori simili.
Può accadere e così accade in Italia: piccoli esseri il cui secondo destino, dopo il primo di nascere, è lo scarto ragionato a freddo da parte di qualcun altro. Ogni tanto si salvano, sbeffeggiando la mala sorte e diventano vite accolte, terzo destino. Succede in Italia, a Gibuti e in molti altri posti, ai cuccioli e anche ai bambini. A volte in maniera identica: nascita, scarto, cassonetto, pianto (e salvezza, quando finisce bene).
Due inverni fa, mentre ero in Italia per un periodo, giocherellai con quella micina di neanche trenta giorni di vita respinta e riaccolta, infilando le mie dita nella gabbia. Subito m’assalì con morsi innocui e zampatine, forse per convincermi a portarla a casa perché, secondo lei, chi meglio di lei poteva ricordarmi respingimenti (e accoglienze) dopo essere naufragata attraverso l’umanità.

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L’umanità in continuo naufragio e scampo è anche quella che naviga a stento tra gli scogli di pietra lavica della baraccopoli. La vita è arsa ogni giorno dalla fornace alimentata dal sole e così l’anima viene cotta mentre cerca di che nutrire il corpo. I giorni assetati chiedono acqua centellinata, acre di ferro e ruggine dal bidone, mentre le notti ascoltano spesso brividi malarici. In quanto ai rifiuti si deve solo imparare a distinguere tra rifiuto scartato e rifiuto “abitativo”: è così che moltissime persone e famiglie campano e scampano. D’altra parte non è facile spiegare e comprendere come una gran parte di quelle circa TRECENTOMILA persone di Balbalà riescano a vivere. Una parte minima campa grazie a lavori incertamente regolari e comunque non può permettersi una condizione migliore al di fuori della baraccopoli; conosco molti professionisti dipendenti dell’Ospedale e insegnanti della Scuola Miriam che rientrano in quella parte minima.
Il resto (di cui l’80-90% giovani sotto i 15 anni) scampa al naufragio grazie a piccolissimi commerci, lavori meno che occasionali, baratti, minimi aiuti dai servizi sociali del governo o, inshallah, grazie alla solidarietà della famiglia allargata (estesa spesso anche a semplici vicini di tugurio o di clan).

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Naturalmente molti bambini della Scuola Miriam appartengono a famiglie che cercano di scampare ogni giorno al naufragio. Fra alcuni di quei bimbi e bimbe ho riconosciuto anche lo stesso sguardo di quella micia, fatto di timore, rabbia, sfida e richiesta di affetto, tutto insieme. Non conosco le storie personali di tutti quei bimbi ma so che nella baraccopoli, che non è zona di guerra (Gibuti è in pace), non esistono oceani tranquilli e sicuri per nessuno.

Quaderni e libri come salvagente, penne e colori come bussole e sestanti, banchi e sedie come scialuppe che non affondano. Bravi insegnanti e un coraggioso preside, come marinai e capitano in una nuova scuola, porto sicuro di approdo e partenza.
Più cultura meno paura.

Ah, naturalmente quella micina, Melissa, ora vive a casa mia in Italia. Mordicchia ancora, rimanendo, a ragione, un po’ rabbiosa verso il mondo, ma sta evolvendo.

melissa

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