DJIBOUTI – Il cambio (parte II)

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Ripartiamo verso Sud e dopo 70 incerti ma caldissimi km troveremo Ali Sabiéh.
Io e Soubér, dopo quasi quindici giorni di riunioni, corsi, strafalcioni linguistici miei e grasse risate alle spalle delle reciproche usanze e culture, stiamo diventando amici.
Ha molta esperienza nonché senso dell’umorismo: quest’ultimo lo ha aiutato spesso da quando è nella sanità militare. Tra un maledetto sorpasso “somalo” e l’altro mi spiega alcune procedure in uso allo SMUR. Vicino a ogni postazione c’è quasi sempre un piccolo centro del ministero della sanità dove lavorano un medico, alcuni infermieri ed ostetriche, tutti, quindi, non militari. Quando c’è una chiamata parte per prima l’ambulanza SMUR con l’autista e l’infermiere generico. Se arriva una seconda chiamata, per un altro servizio, l’infermiere SMUR rimasto prende con sé un infermiere civile e l’ambulanza del centro sanitario contiguo e si reca sul target. Se la chiamata è per una donna gravida l’infermiere prende in equipaggio anche l’ostetrica reperibile.
Così ottimizzano uomini e risorse, finché ce n’è.

Siamo ridiscesi in basso e ora attraversiamo una depressione che accoglie parte del deserto sabbioso chiamato Grand Bará. E’ già l’una e mezza del pomeriggio, l’aria è secca e rovente, il cielo non so definirlo se non blu cielo, senza nuvole e c’è visibilità per chilometri. Mi piace sempre tornare nell’assolutezza del deserto. Qui non ci sono dune ma un’unica piana liscia, di sabbia e ciottoli neri, come polenta fritta con pepe sopra; sarà perché ho un po’ fame. Davanti a noi un’immensa distesa d’acqua, mentre la inseguiamo, continua ad allontanarsi luccicando. Dopo circa mezz’ora di nuova salita fino ad un altro altipiano, giungiamo alla seconda postazione, Ali Sabiéh. Lo schema si ripete: un villaggetto di pochi abitanti, la caserma dell’esercito, la stazione di polizia e la casetta SMUR con centro sanitario civile. Intorno solo un grande mare vuoto di colline e pianure, ma che vuoto non è. Mentre le équipes si danno il cambio alla presenza di Soubér, io proseguo in furgone oltre il paese. Il collega SMUR che ora è al volante vuole mostrarmi un posto di polizia. Mi spiega che, a parte Djibouti Ville e quartiere Balbalà, il resto della popolazione non vive nei villaggi ma sparso per la brousse. Chi abita, anzi sopravvive, nella brousse normalmente non ha il cellulare per chiamare lo SMUR 19. Quindi, se ad esempio, una donna sa che è prossima al parto, un suo parente deve partire dalla sua capanna e, quasi sempre, a piedi si macina i chilometri che lo separano dal più vicino posto di polizia. Giunto là, i poliziotti chiamano via radio lo SMUR che fa partire l’ambulanza; la quale deve poi trovare la capanna della gravida, perché non è detto che il parente abbia aspettato con gli agenti per poi mostrare la strada. L’ultima volta, mi racconta il collega, hanno trovato la capanna alle tre di notte e sono ritornati a Djibouti in ostetricia più di due ore dopo.
Dopo altri 5 km di pista arriviamo alla stazione di polizia, isolata nel solito nulla: è una casupola con il pennone e la bandiera davanti. A fianco c’è una prigione e cioè un garage in muratura, con le sbarre al posto del portone. Siamo vicinissimi ai confini sia dell’Etiopia che della Somalia. Mentre entriamo a conoscere i poliziotti, osservo con la coda dell’occhio cinque disgraziati in piedi dietro le sbarre: sono sans papier che hanno provato a sconfinare clandestinamente, forse dalla Somalia, per entrare a Djibouti. Storditi dal caldo mi fissano muti, con i polsi appoggiati fuori dai ferri.
Il mio collega entra nella guardiola buia e, in somalo, saluta, spiega chi sono e perché sono con lui. Quando finalmente riabituo la vista al buio, vedo seduto dietro un tavolaccio un abbruttito di sbirro, che grugnisce di non capire neanche chi è il mio collega; tutto ciò lo intuisco perché l’infermiere gli replica tutto, ripetendo e sillabando più volte “SMUR”. Ma essendo le due passate forse il poliziotto era in siesta; infatti non è in divisa, ha i sandali e la gonna tradizionale maschile, la futa. Di sicuro, ora, non c’è voglia di dialogo. Ce ne andiamo. Adesso il quadro delle comunicazioni radio tra SMUR e polizia mi è ancora più chiaro.
Mentre facciamo manovra davanti ai sans papier li saluto con la mano fuori dal finestrino. Dieci mani si alzano in sincrono fuori dalle sbarre, allora chiudo le dita a pugno e mostro il pollice alzato per incoraggiarli. Le dieci mani scattano ancora più su, sulle braccia tese e poi tornano insieme nell’ombra della gabbia.

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Quando rientriamo, Soubér mi aspetta per pranzare. Ci sediamo fuori su alcune pietre in circolo, all’ombra degli alberi. Una donna porta un grande piatto di alluminio colmo di riso, condito con pomodoro, verdure e pezzi di carne di capra; lo appoggia sulle pietre al centro. Poi usando una bottiglia da detersivo piena d’acqua me ne versa sulle mani, fa il giro da tutti e scompare dietro la casetta. I miei amici prendono il riso solo con la mano destra, ne fanno velocemente una pallina e la mangiano. Provo anch’io ma non sono così veloce; il riso è molto buono, speziato, carne non ne mangio mai per cui non la tocco, ma nessuno se ne accorge.
Dopo qualche boccone in silenzio Soubèr mi racconta della sua infanzia. Sorride. Faceva a gara, con non so quanti fratellini, a fare nel piatto sottili trincee di riso, i confini a difesa del suo territorio. Poi mima, con la mano di taglio, un solco nel riso tra me e lui. E mi dice anche della velocità con cui queste mappe geografiche di cibo sparivano.
Mezz’ora di riposo seduti per terra, ognuno con i propri pensieri.
Rimane l’ultimo cambio, fra 50 km. Ripartiamo, ma prima l’équipe che resta mi saluta. Li ringrazio e in francese mi rammentano che vogliono partecipare, tra quindici giorni, al nostro corso di formazione.
Facciamo l’ultimo cambio a Dikhil, villaggio quasi gemello di Ali Sabièh, e ripartiamo presto per tornare a Djibouti entro il tramonto. Il caldo e il rollio del furgone sono ipnotici, ogni tanto mi si chiudono gli occhi e mi appisolo. Prendiamo una buca che mi sveglia con un sobbalzo, mentre il sole basso mi acceca per pochi secondi. Stavo sognando dieci mani alzate che, da dietro le sbarre, cercavano di raggiungere un enorme piatto di riso e carne.

(parte 1)

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