ITALIA – Un viaggio nostrano… nel Cinema

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(foto: Debora Cellamare)

«Sarò giù in Puglia, a Giovinazzo, fino a Natale… facciamo un film». Mi dice Alessandro. Così io, che ho lo zaino sempre pronto, mi butto su un volo Londra-Bari e mi ritrovo in un mondo parallelo. Non tanto per Bari, che sì, non è proprio come stare a Londra (dove ora vivo)… Ma per questa assurda macchina dei sogni che è il cinema. Mentre scivoliamo tra grappoli di ragazzetti a far serata in centro, faccio domande sul film in cui sto per mettere il naso. Criminalità ai giorni nostri, una storia di finzione ispirata alla cronaca di un giornalista che ha speso la sua vita al servizio della verità. Sparatorie, innamoramenti, la forza della determinazione. Così preparata mi presento al mio primo giorno da comparsa. Oggi si gira in un casale del Seicento fuori Giovinazzo. Queste strade sono tutte uguali: ulivi, casupole, asfalto a macchie. Ci fermiamo nel mezzo di una rotonda deserta a chiedere indicazioni. Le seguiamo. Facciamo inversione, torniamo indietro e dalla stessa rotonda di prima prendiamo il viottolo che conduce al set. Temevo fossimo in stra-ritardo, invece sereni, la troupe sta ancora montando l’attrezzatura. C’è un gran viavai di gente, saremo una cinquantina. Sorpassato il cancello dove viene preparata la scenografia, entro nell’abitazione di questa signora bene sulla sessantina che ha creduto di fare cosa saggia a consegnare casa sua a eterna memoria di celluloide… ancora non sa cosa la aspetta! Il camino è acceso, la camera da letto padronale è ora camerino e sala trucco. Fohn e spazzola già gonfiano il ciuffo di quello che potrebbe essere un tranquillo impiegato dell’erario, oppure, a guardar meglio, l’ambiguo figuro che occupa sempre lo stesso angolo al bar. Io faccio quattro chiacchiere in giro, poi altre quattro. Mi sistemo accanto al camino con Peppe, musicista, che ha fatto il botto con una nota band italiana. Ora pensa di suonare più quello che piace a lui mentre si dedica a ristrutturare un rudere che lo ha stregato, ai piedi dell’Etna. Ogni tanto fuori sparano. Una raffica di colpi a ripetizione come pop-corn. Ogni tanto ci viene chiesto di abbassare la voce che disturbiamo il suono. Fuori piove a dirotto e nessuno freme per entrare in scena. Passa così la giornata, si pranza veloci, delle schiscette di roba scotta, si torna ad aspettare. Qualcuno improvvisa una partita a carte, qualcuno sonnecchia sul divano stile impero. Un’attrice si chiude nel suo mondo, oltre le cuffiette di un ipod e un romanzo spesso tre dita, chissà se di mafia o di fantasia. Io mi annoio, tanto. Leggo un po’ anche io. Finalmente usciamo a fare una scena. In seguito alla sparatoria la polizia e la scientifica esaminano l’auto della vittima, sopravvissuta. Curiosi-comparse osservano sotto gli ombrelli. La vita dell’attore, per quello che ne sto capendo, non ha senso. È tutta un’attesa, non solo per le comparse ma anche per gli attori di scena che quel giorno recitano la loro parte. Sembra di avere una serie di ore buche a scuola, in cui non succede niente, ma non te ne puoi andare perché poi qualcosa succederà e tu ci devi essere. È come vivere nell’irrealtà. Çe-ci n’est pas une pipe. Questo non è reale, ma lo è (nel senso che noi lo facciamo momento dopo momento) e lo sarà (nel senso che un pubblico lo accetterà come reale, perché questo è il patto tra chi racconta e chi ascolta una storia). E anche, tutta questa vita che accade e scorre lenta dietro le quinte è proprio quella realtà di Altrove che non vedrà nessuno tranne noi. Loro, gli spettatori, vedranno il sogno. Questi i pensieri che covo accanto al caminetto. A un’ora che non so neppure più che ora sia, veniamo tutti caricati sulle auto per raggiungere il secondo set di oggi. Ci ripariamo dal vento contro un capannone cadente e abbandonato dove, guarda caso, si sono sparati. Ora ci giriamo la scena con il morto. Fa troppo freddo per rendersi conto di un granché, tranne che i veri curiosi sono le famigliole che hanno seguito le luci dei riflettori e sono arrivate a fare anche loro le comparse nel cinema, con bambini e passeggini. Ogni volta che finiscono nel campo dell’inquadratura qualcuno deve correre a mandarli via.

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(foto: Debora Cellamare)

L’indomani riprende l’impresa in un interno, per fortuna perché si è molto parlato a tavola e in ogni altra pausa del maltempo che rischia di far saltare le agende di produzione. Il vento soffia forte e solleva il mare che gorgheggia e sputa come se volesse farlo lui il protagonista e dar spettacolo per davvero invece che per finta. Spunta un doppio arcobaleno sul mare verde, a Giovinazzo, ed è una meraviglia. Dentro al ristorante sul porto i tecnici sono affaccendati a creare la loro situazione ideale: luci, suono, composizione, carrelli e pedane per muovere le telecamere. Tavole apparecchiate, birre e sformatini di cioccolato e crema. Le comparse sono confinate nel retro ad aspettare e raccontarsi in che altre situazioni hanno recitato e preso parte a show o trasmissioni. Ci sono un paio di dive del tinello in abiti succinti e sciarpe fucsia, ma anche diverse ragazze e ragazzi che amano il cinema e lo studiano, o che forse lo studieranno da domani. Io osservo e sono felice. Finalmente posso stare sul set, al caldo. Succede di tutto. È un meccanismo complesso, una specie di macchinosa costruzione viva dove ogni persona ha un ruolo e si coordina con tutti gli altri per sistemare quello e inventare quell’altro. Ogni scena si ripete infinite volte, per quante inquadrature il regista desidera proporre allo spettatore, ogni volta si risistema la scena, le telecamere, le comparse, il campo. Pronti, movimento, azione! Di tutto questo filmare (“ora facciamola più intensa”, “provala senza dire sempre”, “tienimi quello sguardo alla lampada che era perfetto”) non si vede quasi niente. Due grossi schermi dentro a valigie di metallo aperte a lato campo mostrano le riprese delle telecamere. Il regista le guarda, con lui oggi il produttore e qualche assistente. Il sogno prenderà forma con la post produzione, in mesi di taglio e cucito sul materiale grezzo del girato. La vitalità del cinema io la sento qui, tra le persone che lo creano con la cura con cui costruirebbero la propria baita-rifugio. Si vive tutti insieme sempre, per il tempo delle riprese. Un paio di mesi gomito a gomito dal letto al letto. Ci si ritrova nei ristoranti convenzionati (“alla Cucchiara c’ha fatto uno scorfano grosso così, ci torniamo!”, “quello squalo ci ha chiesto 40 euro, si catafotta!”, “domani ci sfondiamo di frittelle da Nanni”), e ancora si parla di festival e ultime uscite, di contattare l’amico di tizio che ci da una mano, si recluta il cameriere per una particina, si scopre che ci sono dei musicisti tra la troupe e allora alla chiusura magari si suona insieme. Le conversazioni con gli attori sono più da cocktail party: sempre un po’ spumeggianti, come se non si potesse farne a meno, tutti a raccontare aneddoti di “quella volta che” e “tu lo conosci” e “sei piccola, ma così magra che sembri alta”. Umori e malumori circolano sottili sotto pelle, tra un tintinnio di bicchieri e l’altro, ma sottovoce che poi “porta sfiga al film”. Emergono ruoli nel gruppo, il lento, il freddo, il tranquillo, la precisa, la chioccia, lo zio. In tutto questo bailamme, pero’, accade qualcosa che non so spiegare. In questo gioco dei grandi, costoso, complesso, lungo, invisibile, “accade” molta passione. Alle volte c’è vero ascolto. Spesso ci sono incomprensioni, attese disattese, desideri che non trovano parola. Ho vissuto qualcosa di un po’ folle, credo, maniacale a volte, e anche pulsante di vita. Mi restano più che i cavi, i carrelli, le ricetrasmittenti, il ricordo delle facce. Sorrisi veri tra persone stanche che si incrociano sul set tra un imprevisto e l’altro. Che condividono quella sigaretta e un divorzio, una casa al mare, quel traffico tremendo a Roma “però vieni a trovarmi che te la mostro al meglio”. Stanotte torno a Londra. Roma, arrivo presto.

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