Lampedusa Mirrors, SAN LAZZARO: viaggio teatrale tra ragazzi, pregiudizi e desideri

E poi a volte capita di fare dei viaggi all’incontrario: anziché partire verso qualche altrove per vedere di più, capire di più, scoprire qualcosa di nuovo, si decide di far entrare il nuovo tra le pareti di casa propria, che è poi come fare entrare un po’ d’aria fresca quando le finestre sono chiuse da un po’, si respira, ci si ritempra e si guarda il paesaggio consueto con occhi diversi.

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Dal 16 al 26 gennaio 2015, Lampedusa Mirrors spalanca le finestre del Teatro dell’Argine e dell’ITC Teatro di San Lazzaro per far entrare Moez Mrabet e Monem Chouayet, attori, insegnanti all’Istituto Superiore d’Arte Drammatica di Tunisi e animatori di laboratori teatrali con bambini e ragazzi, nonché convinti assertori dell’importanza del teatro come strumento di espressione, in grado di liberare forze e passioni, e della cultura in generale, come diritto inalienabile e fondamentale, da mettere accanto al diritto alla salute e all’educazione. Soprattutto nella Tunisia post-rivoluzione, con la società civile più che mai partecipe alla vita e alle decisioni della politica. Queste parole ce li rendono molto fratelli: il teatro per il dialogo, il teatro per i ragazzi, il teatro che mescola professionisti e non professionisti, dà nuova linfa vitale ai primi e fa conoscere nuovi mezzi espressivi ai secondi, è una gran bella invenzione.

Nei primi tre giorni insieme, Moez e Monem tengono un laboratorio con i professionisti del Teatro dell’Argine, attori e guide in laboratori teatrali con grandi e piccini: il laboratorio è come un mercato nel quale scambiare strumenti e competenze, come nella città invisibile di Eufemia si scambiano storie e memorie. Si fanno esercizi, si montano piccole strutture teatrali, si scrivono lettere che servono a metterci nei panni di…

Già, nei panni di chi? Nei panni di chi, qui in Italia (anche a Bologna e San Lazzaro di Savena, sì) ci arriva non in aereo con un passaporto, un visto e grande serenità, ma clandestinamente, a bordo di barconi che non hanno neanche l’apparenza della solidità, sui quali l’unico barlume di certezza è dato dalle scritte in arabo “Che Dio ci protegga”. Se ci credi.
«Ma chi glielo fa fare di venire sui barconi, scusa?»
Questa domanda – che è tra le più gentili – richiede una risposta talmente complessa che non può certo essere data qui, da noi, che siamo solo dei poveri teatranti: le leggi-muro della Fortezza Europa e la necessità, quella vera, quella che ci raccontavano i nostri nonni, quella da dopoguerra, da dopo dittatura (o da durante guerra e dittatura); il diritto alla libera circolazione, ovvero a spostarsi liberamente nel mondo, diritto che a noi non sembra così importante solo perché non ci è mai stato tolto. E poi anche il diritto-dovere alla complessità: il dovere di non ridurre a una frase superficiale al bar o su qualche social network la nostra comprensione, per esempio, di una strage di giornalisti o dell’ennesimo nuovo sbarco in Sicilia; il diritto a conoscere le cose come stanno, con tutte le motivazioni, con tutte le sfumature, avendo ascoltato tutte le voci, e possibilmente anche quando accadono in parti dimenticate del mondo.
Il dovere di studiare, il diritto di capire.

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Possibilmente senza gridare. Ecco, questo, con i ragazzi e il teatro, è facilissimo: al quarto giorno di lavoro, al gruppo dei professionisti si aggiungono una ventina fra ragazzi e ragazze dai 13 ai 22 anni, che vengono da San Lazzaro, Bologna e dintorni, ma anche dal Gambia e dalla Romania. Con i ragazzi ci si capisce al volo, anche se alcuni non parlano quasi per niente l’italiano. Il laboratorio si tiene in tre lingue, italiano, francese e inglese, e il teatro entra nel dialogo, nei corpi e nei temi del progetto fin da subito: quel mondo, il mondo della migrazione, del partire, del rischiare la vita in mezzo al mare, è lì in mezzo a noi. C’è poco da dire. Ci facciamo teatro insieme, ci facciamo merenda insieme, con quel mondo. È più facile capire: è più facile vedere la persona quando ce l’hai vicina a lavorare insieme a te. È più difficile vederla quando diventa “orda”, “folla”, “branco” in tv.

Dopo quattro giorni di laboratorio con i ragazzi e gli attori insieme, siamo stanchi ma felici. L’arrivo in teatro per il saggio finale davanti al pubblico è un’emozione indescrivibile: per alcuni è la prima volta; per altri pure, e per di più in una lingua che non è la loro.

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Le luci si abbassano, lo spettacolo comincia con la magia delle luci e dei suoni del mare: i corpi saltano, danzano, cadono, ridono, giocano, annegano, salvano, schiacciano, raccontano.
Le parole dure, insopportabili, rivolte agli emigranti italiani che sbarcavano negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso e che suonano sinistramente uguali a quelle che, oggi, italiani senza più memoria rivolgono ad altri emigranti: «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Fanno molti figli che faticano a mantenere. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti…».
E poi le parole che un grande autore, Alessandro Bergonzoni, ha scritto dopo il terribile naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa e con le quali vi lasciamo, insieme alle immagini dello spettacolo, che adesso per noi e i ragazzi è il viaggio più bello, più emozionante, più importante.

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foto: Luciano Paselli

In attesa della conclusione, il 20 e il 21 marzo 2015, quando le finestre di casa nostra lasceranno entrare oltre 60 artisti e operatori culturali europei e arabi: se avete voglia di aria fresca, vi aspettiamo.

Voglio diventare un barcone, vedere capire e sentire il peso di chi porto, poi imparare a non capovolgermi mai. Voglio diventare un politico europeo o italiano, salire su quel barcone, fare lo stesso tragitto al contrario e non perché mi obbliga qualcuno e mi manda alla deriva o a morire così imparo, ma per imparare da solo davvero a sapere cosa vuol dire, e cosa è quel tragitto: forse è quello che manca per inventare una nuova legge o decidere di fare qualcosa usando il veramente. Voglio diventare un bagnino e mettermi sulla riva coi binocoli, per scrutare se c’è qualcuno da salvare in mare, poi voglio girarmi e vedere se anche sulla terra c’è qualcuno da salvare da quelle onde alte delle politiche che annegano gli uomini e le loro decisioni prese da troppo lontano a certi vicini. Voglio diventare un numero di vittime e cambiarmi, diventare più piccolo, avvicinarmi allo zero. Voglio diventare un giornalista, un attore, uno scrittore, e piangere o pregare prima di parlare, informare o raccontare, senza sentirmi accusare di non saper fare il mio mestiere, di non saper contenere il dolore, di non essere composto davanti ai corpi in decomposizione. Voglio diventare un’accusa e assaporare la mia eventuale indifferenza, accidia, incompetenza. Voglio diventare un innocente e avere qualcos’altro da raccontare ai miei simili un po’ meno innocenti. Voglio diventare una vergogna, provarmi, poi sentire cosa sentono quelli che mi provano o non riescono a provarmi. Voglio diventare sabbia per sopportare i chili di morti che si appoggiano a me almeno per la fine. Voglio diventare un sub per vedere se c’è qualcosa sotto quei natanti, cosa c’è sotto l’Europa, sotto gli uomini, cosa c’è in fondo alla morte. Voglio diventare un centro di accoglienza e star benissimo. Voglio diventare un euro, chiamare tutti gli altri euro possibili, e servire a chi servo, non a chi parla di cosa serve. Voglio diventare un Papa e cominciare anche a predicare, senza essere accusato di predicare, o di volermi paragonare a un Papa. Voglio diventare una colpa e darmi un nuovo senso, voglio diventare un senso e aggiungerlo ai primi cinque ormai non bastanti. Voglio diventare una paura e passare, voglio diventare uno stronzo più di quel che sono, per andare fino in fondo, risalire, e cercare di farmi salvare da chi non lo sarà mai più o non lo è mai stato. Voglio essere una guerra e scoprire come mi moltiplico e perché credo nel continuamente. Voglio diventare una parola e smettere di farmi solo pronunciare. Voglio diventare.

foto: Luciano Paselli
foto: Luciano Paselli
foto: Luciano Paselli
foto: Luciano Paselli

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