MALTA, Rifugiati
La prima volta è successo mentre ero in macchina con delle colleghe. Stavamo andando a consegnare un documento importante a un qualche ufficio maltese nel sud dell’isola e la spedizione si era trasformata in una piccola gita tra amiche: musica a palla, finestrini abbassati, chiacchiere e risate.
Non appena ci eravamo lasciate alle spalle la città e le usuali mete turistiche, il paesaggio s’era fatto più arido e desolato che mai: nessuna casa, poche macchine, un gran silenzio. Ricordo di aver notato subito del filo spinato, spesso e arrugginito, separare la strada da quello che mi era parso un aeroporto militare, o una prigione. «Cos’è?» avevo chiesto ad Antonella, l’unica maltese presente, «Mmm… niente, non so… una base militare», aveva risposto evasiva. Poi aveva voltato, costeggiando quella specie di caserma sperduta nel nulla e un mondo nuovo s’era parato davanti ai miei occhi. All’improvviso eravamo in Africa (o almeno, dentro la mia idea di una certa Africa): gruppi di ragazzi africani si trascinavano lenti sul ciglio della strada, testa bassa sotto il caldo torrido, e donne dalle vesti variopinte camminavano a poca distanza trasportando faticosamente grossi secchi (acqua?), inseguite da qualche bimbo scalzo e malvestito. Poco più in là degli scheletri di case (palazzine in costruzione, capannoni fatiscenti), qualche tenda in lontananza, reti di metallo, cancelli, ancora filo spinato. «No, aspetta, non credo che sia una base militare, deve essere un campo profughi!» avevo esclamato quasi incredula, cercando di buttare lo sguardo oltre quel confine di ferro e cemento. «Ah sì, può darsi» aveva tagliato corto Antonella per poi cambiare velocemente discorso.
Quella scena si sarebbe ripetuta altre volte durante il mio soggiorno a Malta, con interlocutori diversi, ma un atteggiamento e risposte assai simili a quelle date dalla mia giovane collega. Perché quello dell’immigrazione è un argomento di cui i maltesi non amano affatto parlare e – per quanto, soprattutto negli ultimi anni, si sia molto discusso sulle politiche adottate in merito dal Paese – ogni tentativo di approfondire con la gente del posto si è rivelato fallimentare.
Ciò non vuol dire che non ci siano persone disposte ad affrontare la questione o impegnate attivamente su questo fronte, purtroppo però, durante la mia breve permanenza, ho avuto modo di constatare una chiusura non indifferente, quando non una vera e propria ostilità da parte degli isolani nei confronti degli immigrati.
A Malta sono quasi quattromila i migranti distribuiti in quattro diverse strutture, una presenza ingombrante e scomoda, fosse solo per le dimensioni assai ridotte dell’isola. Arrivano qui dopo aver affrontato infernali odissee per terra e per mare e ad attenderli trovano i così detti centri di detenzione aperta (open center) e quelli di permanenza temporanea. Lo Stato maltese, che ha aderito agli accordi di libera circolazione di Schengen, per legge può trattenere gli immigrati per un periodo massimo di diciotto mesi al termine del quale, se non si è rimpatriati, si ottiene l’autorizzazione a circolare sul territorio nazionale. Durante questo lasso di tempo gli immigrati possono richiedere la concessione dello status di rifugiato politico, ma i requisiti per ottenerlo sono severi e i tempi di attesa in genere molto lunghi, cosicché per tantissimi la permanenza nei centri si spinge ben oltre l’anno e mezzo previsto. D’altra parte, per centinaia di africani quella del centro aperto – in cui tanti rimangono addirittura anni – è una scelta praticamente obbligata: per loro, trovare un lavoro e una sistemazione degni di questo nome a Malta è un’impresa quasi impossibile, mentre razzismo, orgoglio nazionalista ed esclusione sociale sono il pane quotidiano.
Ma per la maggior parte dei locali è meglio viaggiare con i paraocchi, fingere di non sapere, lasciare che siano i giornali esteri e qualche ONG ad occuparsi del problema. E poi la ricchezza del Paese è rappresentata dal turismo e gli immigrati non sono quello che i turisti vogliono vedere; quello è un universo a sé, che spaventa, meglio tenerlo nascosto, a mille anni luce dalla vita di tutti i giorni. Quella è un’altra isola.
Il centro aperto di Hal Far incarna alla perfezione il tentativo di confinamento – mentale e fisico – dello straniero che ho percepito in maniera così forte presso la popolazione locale. Situata in una zona isolata dopo l’aeroporto, la Tendopoli – così come è stata ribattezzata – ospita circa 600 migranti (ma altre fonti parlano addirittura di mille persone), uomini, donne e bambini. Moltissimi sono somali, fuggiti da una guerra che devasta il Paese da più di vent’anni, tanti vengono dalla Libia, altri dall’Etiopia, dal Sudan, dall’Eritrea; gli anziani si mischiano ai giovanissimi, gli irregolari a coloro – e sono molti – in attesa di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato politico.
Più volte (da parte di soggetti come Medici Senza Frontiere e Amnesty International) sono state portate all’attenzione della Comunità Internazionale le condizioni di forte disagio e precarietà in cui sono costretti gli ospiti del campo aperto di Hal Far. La mancanza di spazio fisico e di privacy, le condizioni igieniche pessime (in alcuni rapporti si parla di ratti, muffe e amianto sulle pareti) e gli enormi, connessi rischi per la salute di chi vi abita, ma la situazione non sembra aver compiuto grossi passi in avanti.
Tutto questo non l’ho saputo visitando il campo, cosa ovviamente impossibile per qualsiasi civile senza alcuna qualifica per farlo, né leggendo i quotidiani maltesi che non offrono che sporadici cenni sull’argomento. Una delle mie coinquiline, mediatrice culturale, ha prestato servizio presso una ONG locale e lavorato come volontaria con la CRI; ciò si è tradotto nell’avere accesso a informazioni un po’ più dettagliate, nella partecipazione a serate di sensibilizzazione organizzate nel tentativo di avvicinare maltesi e migranti (come la Giornata Mondiale del Rifugiato e il Multi Malta), nel racconto quotidiano di esistenze che pur così vicine sembrano solo sfiorare il nostro quotidiano (e se ciò accade, pare non essere mai per qualcosa di positivo).
Ciò nonostante, non ho competenze sufficienti per affrontare come meriterebbe un tema così complesso e, del resto, non è questa la sede per farlo. Ma dopo essere passata da quel campo, aver ascoltato quelle storie e scambiato più sguardi che parole con quelle donne e quei bimbi, mi sono più volte interrogata sul significato della parola rifugio.
Un luogo che dovrebbe offrire aiuto e difesa, ma anche – in senso figurato – «una persona, un ambiente, un’attività a cui si ricorre per avere protezione e sollievo» (cit. Sabatini – Coletti). Mi chiedo quanta disperazione, rabbia, disillusione, amarezza si mescolino nel petto di chi è fuggito dalla propria terra con la speranza di trovare un appiglio al di là del mare e si è trovato respinto, maltrattato, precipitato nel girone degli indesiderati. Mi domando quanto lontano debba sembrare questo posto dall’idea di rifugio e come suoni estranea la parola accoglienza a chi vive tutti i giorni la miseria degli open center e della xenofobia dilagante nel Paese.
Il porto sicuro, la salvezza, un futuro migliore: a questo pensavano quelle anime in fuga prima di approdare a Malta. Ma quella, davvero, è un’altra isola.