ESODI 3, Il traduttore

Diari da uno spettacolo 2015
al laboratorio interculturale Esodi del Teatro dell’Argine.
Contributi di Elena Guidolin e Teresa Vila.


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Disegni: Elena Guidolin


…E insomma ci sono dentro. Sono ormai parte dell’hotel, e spazzoloni e strofinacci, perennemente in mano, non mi hanno più abbandonata. La mia collega di piano arriva, sempre così elegante, così raffinata. Unico suo problema: non sapere una parola d’italiano. Mi accoglie con una valanga di parole e imprecazioni che non solo non capisco, ma neanche riesco a immaginare in che lingua siano. Poco dietro di lei, entra il Traduttore Ufficiale dell’albergo, quello che ce l’ha fatta, che è passato all’intrattenimento del turista. Come vorrei essere come lui. Il traduttore, preoccupato di farmi capire le parole della mia collega, me le traduce all’italiano. Un insieme di suoni palatali, alveolari, bilabiali, gutturali non meglio specificati diventano un: «Ciao bella, come stai? Come va il lavoro oggi?».

La mia collega parla pacata, ma con una furia repressa, tagliente e decisa. Fa un paio di passi verso di me, alzando di un poco la voce e agitando la scopa minacciosamente: «Attenta al manico della scopa che c’ha delle schegge!», mi traduce intanto il Gran Traduttore. Continuano per un bel po’, lui sempre più abile, spiegando tutto in italiano quasi in tempo reale, lei sempre più gesticolante. Ho cercato di salutarla cordialmente, dicendole che ci saremmo riviste presto.
«NE!» ha urlato lei.
«SÌ!» ha urlato contemporaneamente lui. Qualcuno nel pubblico ride.

L’improvvisazione finisce così, e io ritorno al laboratorio teatrale di Esodi. Mi siedo tra i ragazzi africani che durante la nostra scena si spanzavano dal ridere per le invettive della mia collega. In effetti si era venuta a creare una strana situazione parallela: se il traduttore doveva inventarsi una versione compiacente per le invettive originarie del lavoratore forestiero, a tutto beneficio del pubblico italiano, agli sproloqui folli e assai ispirati dei camerieri immigrati potevano ridere solo i ragazzi stranieri. Un doppio spettacolo complementare e ferocemente concorrenziale.

Chissà che dicevano, poi… Chiedo al ragazzino accanto a me, ancora divertito, se me lo traduce: «Mi prendeva in giro, la mia collega?». Il ragazzo si volta, mutando il sorriso in un’espressione impenetrabile, e mi dice in inglese: «Ti ha detto che trova bellino quello che scrivi sul vostro lavoro da inservienti, ma che devi parlare di quello che c’è là fuori».
E aggiunge: «I topi. Là fuori ci sono i topi. Alle sette, alle sei di sera, alle volte anche alle cinque del pomeriggio: migliaia di topi». Ma che sta dicendo? «Hum… già», rispondo. La mia collega sta fuori, penso, ha preso un po’ troppo sul serio la cosa dell’improvvisazione.
Finite le prove, mi catapulto fuori dalla stanza, pronta a cenare e a tuffarmi a dormire ad una ragionevole velocità della luce. Nel pianerottolo, in pieno teatro, un topo, sfrecciando rapido come uno scarafaggio, attraversa il corridoio. Un topo. L’ho visto davvero? Magari no. Invece torna indietro, lentamente questa volta, e lo vedo sul serio, proprio bene. È pensieroso, come se avesse dimenticato qualcosa. Mi guarda e mi dice: «E poi il luogo comune della valigia come un viaggio.. ma fammi il piacere va…!» e si allontana. Un po’ sconvolta, torno indietro nella stanza, dove ancora ci sono molti dei ragazzi: quasi quasi ci resto..

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Parole: Teresa Vila


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