MAROCCO, Fumetti per sopravvivere
Il Marocco è davvero uno strano posto per quanto riguarda la produzione culturale. Da un lato una cultura profonda e straordinariamente complessa dovuta alla sua posizione e alla sua storia di crocevia tra Africa, Europa e oriente arabo, profondità e complessità che si respira nell’aria e che chi vi nasce succhia con il latte materno; dall’altro uno stato deplorevole dell’istruzione, che attesta il paese al 50% di analfabetismo tra gli adulti, risultato derivante da una concezione aristocratica e sprezzante della società che si è dolorosamente acuita durante gli anni del protettorato francese (1912 – 1956) e a cui l’indipendenza non ha saputo o voluto porre rimedio. L’impossibilità di accedere a un’istruzione decente come a una vera partecipazione politica (almeno fino al 1999, anno della morte del re Hassan II) hanno significato per i ceti popolari, soprattutto rurali, l’impossibilità di fatto di prendere la parola, di contrapporre efficacemente la propria narrazione a quella del regime. Ma questa muta oscurità è stata squarciata a volte da lampi di inaudita potenza, come nel caso dello scrittore riffano Mohamed Choukri, che dalle strade di Tangeri e Tetouan è arrivato alle soglie del Nobel con il suo romanzo Il pane nudo. La generazione successiva, nata nel dopoguerra, ha pagato con inimmaginabile durezza il tentativo di democratizzare la società negli anni ’60 e ’70, eppure anche l’oscurità per definizione inaccessibile e separata delle carceri segrete e della tortura è stata a tratti messa allo scoperto da numerosi prigionieri politici che spesso scrivevano e disegnavano proprio per resistere e trovare la forza per andare avanti.
È il caso di Mohammed Nadrani e Abdelaziz Mouride, che le galere di Hassan II le hanno conosciute bene avendoci passato una decina d’anni per il solo fatto di aver aderito a movimenti di opposizione nei cosiddetti “anni di piombo” (’70 – ’80). Sono i padri indiscussi del fumetto marocchino, che con le loro tavole disegnate di nascosto in carcere, passate furtivamente all’esterno e finalmente assemblate e pubblicate molto dopo la loro liberazione, hanno trasmesso una memoria toccante di quella ferita che il regime vorrebbe rimossa o troppo facilmente ricucita. Leggendo i loro racconti si ha la percezione nettissima di quanto sia stato importante per loro disegnare, trasmettere e quindi dare un senso alle loro sofferenze.
È commovente l’immagine di Nadrani, allora giovane illetterato di origine rurale, che nell’annientamento del carcere e della tortura si affida ai disegni tracciati con un pezzetto di carbone trovato per caso in cella per rimanere vivo.
Come impressiona la dignità di Mouride, che risponde alla sadica violenza dei suoi torturatori non col risentimento, ma con la pacata e sapiente narrazione dell’eroico sciopero della fame dei prigionieri per i loro diritti. La scarsa diffusione delle loro opere (probabilmente più note in Francia e in Algeria che non in Marocco) la dice lunga sulla superficialità del processo di “riconciliazione” tanto propagandato dall’attuale regime e solo la recente scomparsa del sessantaquattrenne Mouride ha costretto i media a tributargli qualche imbarazzata attenzione. Forse è anche per l’ingombrante tema che hanno scelto di trattare se la loro progenie artistica non sembra molto numerosa…