L’Artista del Digiuno: retorica, pornografia e potere
Come capirsi comunque nel cuore, senza capirsi a parole?
Come non appropriarsi dell’angoscia dell’altro facendone teatro?
Come non peccare per l’illusione di capire e per la paura di non capire?
Come mettersi per quanto possibile al posto dell’altro senza prenderselo?
Come non tradurre? Cioè: come non tradurre? Bisogna pur tradurre.
(Hélène Cixous, dal programma di sala dello spettacolo Le Dernier Caransérail (Oyssées), Théâtre du Soleil, 2003)
Secondo Carmelo Bene, Kafka è il più grande pornografo della letteratura. La sua scrittura restituisce ogni aspetto dell’umano senza mediazioni etiche. La relazione umana è spogliata di ogni paludamento.
La pornografia si compone di un oggetto e di uno sguardo. Il rapporto di forza è sbilanciato: l’oggetto subisce, lo sguardo domina. Lo sguardo fruga nell’oggetto per farne uso e consumo, lo considera come un insieme di bocconi invece di un tutto, ne mangia delle parti, ignora, butta e spreca il resto. Si nutre di quelle parti, se ne alimenta per crescere e rafforzarsi: per confermarsi al resto del mondo come dominante.
Parlando di pornografia viene subito in mente l’uso sessuale delle persone, in realtà questo non è il solo commercio di corpi. Lo è ogni retorica che si appropria di storie (personali) e intimità, esibendole a proprio uso e consumo, per auto-confermarsi. È un processo di cottura e digestione di una preda che altrimenti spaventa, un modo per far fuori il nemico in grande stile. L’accanimento del maschilismo sul femminile, il razzismo dai mille volti, anche quelli sorridenti, non hanno altra ragione di essere se non la paura che la preda sotto le zampe possa mordere e rovesciare i ruoli di potere.
Al laboratorio teatrale di Cantieri Meticci, al Centro Zonarelli, si lavora sul racconto di Kafka: Un artista del digiuno. Fa parte di una raccolta di quattro racconti che, nella vasta produzione letteraria dell’autore, è l’unica opera che lui abbia mai voluto pubblicare.
La potenza teatrale delle immagini di Kafka è terreno fecondo per un gruppo di lavoro. Abdellatiff, attore della compagnia già da diversi anni, è il digiunatore. Un grande tavolo, quasi un teatro anatomico, è il luogo dell’esibizione dell’artista del digiuno. Attorno a lui è il c’è il cerchio degli sguardi: spettatori, a tratti una ronda di vigilanza, quasi le sbarre vive di una gabbia che trattiene qualcosa che non si conosce e che potrebbe essere pericolosa.
Una tavola che, invece di essere imbandita di cibo, esibisce la negazione del cibo: l’artista del digiuno, il corpo di un uomo che non mangia da quaranta giorni. Inerme, è oggetto degli sguardi indagatori degli astanti: l’impresario che lo ha ingaggiato e lo sfrutta facendo pagare un biglietto a chi vuole guardare lo strano essere che si sottrae alle leggi della vita; un bambino; la ballerina che reclama la sua parte di esibizione; il macellaio, che lo apostrofa con quel misto di pietà e derisione tipico di chi sente di avere la testa sulle spalle.
Le domande della gente sono in realtà domande retoriche, nessuno vuol sapere davvero perché l’artista digiuna. Ogni domanda evidenzia la differenza tra chi guarda e chi è guardato, è un tentativo di arpionare il diverso e inglobarlo in un sistema di pensiero comune: che sia dentro o che sia fuori, basta che rispetti la mappa già disegnata della colonizzazione.
L’altra faccia dell’appello al dialogo è la conferma della discriminazione, perché attira l’altro in un terreno dove i conflitti sono banditi ed esistono solo persone e storie personali. Ma non esistono parole neutrali né terreni neutrali.
Esiste l’autocensura del buonismo, che nasconde tutta la geografia del potere come una nevicata.