CILE, I confini cedono all’immaginazione
La stazione delle partenze/arrivi dei bus di Buenos Aires è tutto ciò che può far spavento per la tenerezza. Mendicanti, polvere, hot dog sul selciato, bambini unti con gli occhi vivi e furbi, favelas di cartone e plastica, nascoste come funghi, allucinogeni, scheletrici ragazzi intossicati dalla colla, MDMA spacciata negli angoli rugosi da madri e da campionari sudamericani di caotici andirivieni colorati e folli. La verità è una sberla in faccia al mattino, della quale si sa anche il motivo – nessuno!
Mi prende al respiro, è ciò che mi accade nelle grandi città: lasciati dietro i lustrini turistici, apri gli occhi su certo reale e non puoi mentirti, lì dove l’uomo dimentica e fa del suo silenzio il regno assoluto. Mangiando pane, attendiamo di partire per rollare un migliaio di chilometri verso ovest, Mendoza: nella notte traversiamo lande distese che sono solo coperte di stelle e film in lingua spagnola.
Arriviamo a Mendoza nella Festa dell’Immacolata e la città è deserta, svuotata: nei giorni delle feste cristiane qui si prega, si sta in famiglia.
Riposiamo in una casa d’artista, decadente ma sicura, e l’indomani con la città rimpolpata di gente prendiamo bici e via, lungo distese di cantine vinicole e produzioni d’olio.
La natura riporta al respiro primo, alla calma necessario per lenire l’inquietudine.
La chiara di un giorno bellissimo lascia godere, in lontananza, lo spettacolo delle Ande, punte bianche e sacre, e poi distese di verde: brucando la bellezza, il giorno ci appaga. Javier, il nostro ospite, ci racconta di un’anima del sottoterra culturale che è fervida in Mendoza ma non abbiamo tempo. I km attendono.
Altro autobus e traversata notturna delle Ande, settecento km, per essere in Santiago del Cile. Giusto il tempo di appoggiare nel sonno A Coney Island of the Mind di Ferlinghetti e di soprassalto, nel cuore della notte, veniamo svegliati alla frontiera.
Ci troviamo come dentro a un film, ma non è un film. In fila per controlli e richieste di documenti, evitando gli sguardi negli occhi, è vietato portare cibi, vegetali e altre cose fresche – se sia il retaggio di un mai sopito rapporto teso tra le nazioni, un ricordo amebico del generale Pinochet o un vero e proprio sistema contro improbabili “malattie” alimentari, non ci è dato sapere… È che capita di veder gettata una banana ma la stessa persona può passare con dieci pacchi di zucchero e uno stereo nuovo!
Alla domanda del gendarme: «Cosa viene a fare in Cile?», rispondo: «Per vedere», guardando fisso. «E il suo lavoro?».
«Sono poeta, sì, sì, sono un poeta». Al che, il timbro è partito: sarebbe stato bello stuzzicarlo con Neruda e Allende, ma era notte e anche freddo.
Nella capitale si calpestano le ceramiche dal mattino presto, Paseo Ahumada, Plaza de la Constitución, la Chascona di Neruda nel parigino quartiere di Bellavista, Palacio de la Moneda.
Tra meravigliosi caffè, nella piazza grande ho immaginato i miei discorsi a perdere bellissimi con il Compagno Libero Beppe andato pochi mesi fa a parlar con le nuvole, discorsi sulla rigenerazione umana e sulla bella gente del mondo che lotta, che vive contro i confini terreni e mentali imposti. E la tenerezza per dar in là alla curiosità vivida.
Ho così portato il mio saluto e pensato a tutti i vinti, che non lo sono mai: è un’illusione del potere. Che cade.
Così, esausti e innamorati, terminiamo il giorno al Mercado Central tra poveri, semplici piatti caldi e meravigliosi. Tutto l’oro risiede nel semplice. Sempre e da sempre. E nessun confine resisterà alla spinta buona dell’immaginazione.