ASIA CENTRALE, Fotografie

kalyan

Quella che segue è una lettera che scrissi alla mia Famiglia durante il mio ultimo viaggio. Originariamente senza fotografie, ho cercato di disegnare dei contorni e dei colori con le parole e vorrei rispettare la versione solo testo. Delle frontiere non possiedo immagini: sono ritenute aree militari perciò vige il divieto assoluto di scattare fotografie, oltre al fatto che ritengo detestabile lo scatto “a tutti i costi”… e allora è tutto nella testa, tutto un film che non mi stanco mai di riavvolgere e rivedere.

19/11/12, Osh – Kyrgyzstan

Ci sono pomeriggi in cui è magnifico star chiusi in un appartamento di Osh, in un vecchio palazzo sovietico, perché fuori piove e fa freddo e l’ozio sa sempre tenere compagnia.

Ho in mente delle foto che devo raccontare: voglio condividerle con voi e ripeterle a me stessa, per imprimerle nella mente. Mi è stato chiesto se al mio rientro riuscirò a ricordare tutto… Non lo so, lo spero e per aiutarmi continuo a scrivere e a rigirarmi i ricordi nel labirinto dei pensieri.

Le donne in Uzbekistan sono colorate: vestono così tanti strati di indumenti che diventa impossibile distinguerli. Calze, calzettoni, una gonna o forse un abito, un grembiule, maglioni e sopra a tutto un cappotto di lana ruvida. La testa coperta da un foulard di seta o di lana colorato: un chiasso di colori e fantasie da lasciare storditi e incantati! Fiori, righe, pois, disegni tribali stilizzati, un miscuglio che è arte. Ai piedi delle scarpe aperte dietro, identiche a delle pantofole con una suola robusta; fanno specie in un clima così rigido.
I volti orientali sono piuttosto scuri, increspati dal freddo e dagli anni, i sorrisi rivelano denti d’oro e mi scopro a scrutare con curiosità le bocche in cui non ne vedo almeno uno immediatamente: deve esserci, insomma, almeno uno deve esserci! Gli occhi scuri sembrano sempre intenti in qualche pensiero grave… Poi mi è capitato di scoprire questa cosa curiosa: la moda di disegnare con la matita nera un tratto che unisce le due sopracciglia. Sì, proprio quel punto che noi attacchiamo con spietati colpi di pinzetta: la donna uzbeka lo riempie a colpi di matita. E mi vengono in mente gli scaffali thailandesi pieni di creme whitening e penso a quanto siano strani, vari e contrastanti i nostri canoni di bellezza. Molte donne si dipingono le unghie di un pallido arancio: non è smalto, ha tutta l’apparenza di una tintura tipo henné di cui ho visto tinte anche alcune mani… purtroppo non so nulla di più.
Gli uomini indossano il ton, una sorta di cappotto di spesso cotone simile ad una trapunta blu o viola, chiuso in vita da un foulard arrotolato e annodato. In testa il dopou, un copricapo cilindrico alto una decina di centimetri, solitamente grigio o nero.
Darian mi spiega il perché di questi abiti lunghi anche per gli uomini: è una tradizione che arriva dall’Islam, gli abiti lunghi non solo per le donne ma anche per gli uomini… una tradizione che purtroppo si sta perdendo perché «Quando arrivarono i russi iniziarono a togliere il velo alle donne, a cambiare i nostri costumi, con il tempo sembra che molti vogliano sempre più svestirsi e mostrarsi, questo non mi piace e non lo capisco».

***

Bukhara è una città piena di fascino antico: la città vecchia è tutta sabbia e a trovarsi lì, sotto il minareto Kalyan, è sentirsi davvero in mezzo alla via della seta.
Samarcanda, dal nome mitico e altisonante, lascia di stucco per la bellezza del Registan quanto per l’assenza di qualsiasi altra traccia di autenticità. Così, tutto sommato, posso dire che l’Uzbekistan l’ho visto altrove: nelle strade, nei bazaar e ai confini.
Le strade nelle città sono grandi, sgombre, costruite dai russi a discapito di alcuni quartieri uzbeki andati estinti. Stonano. Uscendo dalle città tutto cambia, tutto torna a una dimensione asiatica di disordine. Si incontrano carretti di legno colmi di fascine di legna, meloni o zucche, o semplicemente con un uomo e il suo bambino che vanno verso casa o un campo o chissà. A guardarli sento odore di fumo e legna bruciata. Nei campi persone chine a raccogliere cotone e, più in là, mucche come sagome nere di cartone nella nebbia gelida del mattino. Vecchie auto russe color pastello.

Il bazaar, cuore e anima della città, gremito di gente e di vita! Infiniti banchi di frutta secca e fresca, giornali e animali a pezzi, copricapi e fiori! Mele, melograni e soprattutto montagne di meloni e angurie. Non c’è pasto che si rispetti senza un quarto di questi frutti appena tagliati ed è sorprendente quanto bello sia addentare un frutto per noi “estivo” dopo una zuppa bollente.
Tra le verdure dominano cipolle, patate e carote… queste ultime corte e tozze, niente a che vedere con le nostre. Alcuni banchi vendono verdure già tagliate alla julienne, ma dubito le chiamino così.
E poi c’è il culto del pane. E’ ovunque. Ti perseguita, su quei carretti, su quelle carriole, avvolto in coperte fumanti. Ad ogni angolo vedi un ragazzino intento a lucidare le pagnotte con uno straccio imbevuto di non-si-sa-bene cosa: dal sapore direi un misto di burro e tuorlo d’uovo che rende le pagnotte, tonde e pesanti come mattoni, lucide e dorate. Appena arrivata a Samarcanda un ragazzo si è proposto di aiutarmi a scegliere il pane giusto «You know, in Samarqand only one kind of bread but there is good and not good. You know, I lived in England one year so I can help you choose a good one». [Sai, a Samarcanda c’è un solo tipo di pane, ma ce n’è di buono e di non buono. Sai, ho vissuto un anno in Inghilterra e posso aiutarti a sceglierne uno buono. N.d.R.] Certo, ha vissuto in Inghilterra quindi di pane uzbeko se ne intende.

Infine i confini! Dove la parola d’ordine è “Italia” e davanti a me si aprono le acque e non c’è fila che resista al mio arrivo! Arrivo alle porte del Kyrgyzstan e i cancelli sono chiusi. Ci sono un centinaio di persone dietro ad una sbarra di ferro: tacciono, parlano, sgranocchiano uva. Aspettano. Alcuni anziani siedono su una panca all’ombra a ridosso delle mura della dogana. Un soldato sorveglia la situazione, ha in vita un coltellaccio.
C’è il sole, e la vista delle montagne mi scalda il cuore. Aspetto anche io, non so chi o cosa, impossibile capirlo… ci vuole pazienza, me lo ripeto ancora, butto lo zaino a terra e mi ci siedo sopra.
Passa un’ora e una signora inizia a urlare: sta chiaramente inveendo contro qualcuno, guardo e mi sembra di intuire che ce l’abbia con una ragazza che, insieme a un bambino, è passata davanti al gruppo di donne in fila. Altre voci si alzano dal gruppo, la colpevole tace e fa finta di niente… mi viene da sorridere e penso che me ne starò qui quieta, anzi ora mi metto per bene in fila perché la signora è pericolosa. Allora prendo le mie cose e mi accodo… In quel momento mi si avvicina una signora, mi chiede qualcosa in russo e io di riflesso scuoto la testa, mi batto le mani sul petto e dico “Italia!”
Italia! E tutti mi guardano! E grandi sorrisi d’oro! Braccia che mi indicano la strada per la salvezza! La signora mi fa intendere che, se non passo avanti, fa in tempo ad arrivare la notte o a cadere il cielo, una delle due. Io ho ancora un po’ di paura della signora cattiva ma gli sguardi attorno a me mi incoraggiano ad andare avanti… Così arrivo dalla guardia, mi volto e vedo dietro alla sbarra almeno 200 occhi che mi osservano e sento pronunciare la parola “Italia” infinite volte. Arrivata qui devo comunque attendere un altro quarto d’ora, mi sento piuttosto osservata e mi rigiro il passaporto tra le mani. Il soldato chiama qualcuno alla radio poi mi apre il cancello: è giunto il mio momento. Mi volto per un saluto ai miei benefattori e vedo decine di mani che mi salutano e sorrisoni allegri. Meraviglia! Emozione! Cammino verso il Kyrgyzstan e sorrido felice perché io e Loro stiamo andando nella stessa direzione.

La pioggia, ora, è diventata neve.

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