SKOPJE, Frontiere d’acqua, frontiere etniche, libertà

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I furgon come crocevia tra generazioni, lungo strade non ancora asfaltate o a singhiozzo, la polvere argentea sembra rivestire le anziane signore con fazzoletti annodati tra la nuca, di cui mi immagino il momento di grazia dinanzi allo specchio, e nel sedile di fianco le nipoti con cellulari connettendosi al mondo, la borsa della spesa, i vestiti lavati per i famigliari e le ballerine ai piedi su jeans attillati a pennello.
Nipoti e sorelle di ragazzi lontani, sugli interporti di Bari, nei mercati urlanti di frutta a Napoli. Generazioni attaccate dalla forza della povertà, dalla tradizione, dall’abbandono.
Coi furgon, con poche monete, attraversiamo l’Albania su viaggi interminabili a velocità ridotta: le soste sono in ristoranti o tabaccherie disperse nella campagna albanese; visitiamo Behrati, città presepe incastonata nella roccia ove il quotidiano trascorre nell’asfaltare un ponte nuovo con filo e cazzuola e barbieri pieni di persone, senza lavoro, perché qua sono tutti senza un lavoro, a parlare delle cose, a bere the caldo fumante, e guardare con spessi occhi, il nulla migliore. Ci attraversano scenografie pastello stupende che tolgono il fiato primordiale in noi, arrivando alla frontiera macedone, traversata a piedi, verso Orhid, e il suo lago che lambisce città d’Albania, e città di Macedonia: il confine di questi due paesi – i cui fasti antichi ne sfregiarono le carni, con lotte e sangue disperso nella terra – è esattamente nell’acqua del lago, nel moto calmo d’acqua del lago che genera silenzio in un inverno da baciare.

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Il potere dell’acqua, il blu cobalto degli anziani, memoria di un Kosovo vicino, di una guerra civile, povertà genera violenza, violenza genera violenza: noi dobbiamo trattenere la memoria, sempre.

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Trovando rifugio in una freddissima casa in sasso lungo Bokovo, all’alba stretti nel manto nero della notte, spettacolo del mistero, penso ai lunghi passi fatti dall’occidente, esagerati, dimenticando così il moto del cammino, del respiro che si fa forte, del pezzo di pane e di carne da dividere, del racconto di un’estate romana di una famiglia macedone che ci accoglie, una foto ricordo di questo modo di mondo che non dimentica la carezza.
Portami a ballare un sabato sera e all’alba guarderemo le prime luci della città. Una danza popolare che tramanda i fili, i sacrifici. Portami a pregare un dio inventato, buono, nostro. A sognarci insieme.

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Nella notte penso, mentre un treno antico, a sette euro, ci cullerà per qualche ora, verso Skopje capitale, il cielo di Skopje che dicono ricordi Marghera, l’inverno freddo, dove Alessandro Magno ha gettato il seme del processo da noi tutt’ora fallito: l’unione tra popolazioni diverse.
Le frontiere etniche, religiose, in cui nasce sangue e il non compreso, ma da cui devono nascere farfalle. Fragili e fortissime. Libertà nel dorso dei popoli.

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