Muto quindi sono

10-beccia

Vieni, ti prego, vieni da noi! Non te ne verrà obbligo alcuno, non sarai legato per sempre alla nostra stanza come noi. […] Da noi l’inverno è lungo, un inverno lungo e monotono. Però laggiù non ce ne lamentiamo, siamo al riparo dall’inverno. Sì, prima o poi vengono anche la primavera e l’estate, c’è tempo anche per loro.

(Franz Kafka, Il Castello)

Il laboratorio teatrale di Cantieri Meticci al Centro Zonarelli si avvicina pericolosamente alla sua conclusione, lo spettacolo. La data fatidica è il 15 giugno. S’incomincia a respirare nell’aria quell’ansia che chi fa teatro conosce bene e che, a ridosso dell’incontro con il pubblico, vira verso il panico puro. Panico silenzioso, mesto, che ti fa sentire un agnello votato al sacrificio, ma che per fortuna un briciolo di speranza non del tutto soffocato mette a tacere e non permette di esplodere in fuga vera e propria. Chi non ha mai avuto l’esperienza di confrontarsi con il pubblico non sa quello che lo aspetta. Sono in tanti nel laboratorio ad affrontare il teatro per la prima volta nella vita. Molti migranti si ritrovano a fare teatro, sfoggiando anche un grande talento, senza che ci abbiamo mai pensato prima nella loro vita.

Un amico della Costa d’Avorio, che ha frequentato la Compagnia per diversi anni, bravissimo attore e narratore, mi raccontava di aver detto a sua figlia di 9 anni che in Italia faceva il teatro. Raccontava ridendo, quasi con un senso di timido imbarazzo dovuto all’incongruenza delle due immagini di sé a confronto, quella in Costa d’Avorio e quella in Italia, che la figlia stentava a credere al fatto che il padre potesse fare l’attore, tanto diversa era l’immagine che lei aveva di lui. Viene quasi da pensare che chi è costretto a troncare la propria vita nel proprio paese e a reinventarsene un’altra in un altro paese vive una seconda nascita, estremamente dolorosa, come tutte le nascite. Rinascere a sé, agli altri, agli affetti, senza dimenticare mai da dove si è arrivati.

Un’altra cucina, le cuoche sono sole donne. I ritmi di lavoro sono frenetici, quasi impossibili. Un giovane senzatetto si rifugia in quel luogo caldo e profumato di buono e si addormenta. Si sveglia che è troppo tardi per fuggire, se ci prova lo scoprono. Viene scoperto egualmente, ma non viene cacciato. Sarà coinvolto in una girandola di travestimenti che lo trasformeranno, suo malgrado, nell’una o nell’altra delle tre cuoche. Dovrà subire, al posto delle donne, i fastidiosi palpeggiamenti dei camerieri, in cambio di un posto caldo e di cibo. Sarà eletto ingranaggio invisibile che permetterà all’implacabile macchina della produzione di allentare la stretta sulle cuoche e permetterà loro di riprendere fiato qualche secondo di più. Da straniero, un uomo senza identità, diventa abilissimo camaleonte. Si sottopone, per dirla con le parole di Zygmunt Bauman, a un passaggio di stato da solido a liquido, per meglio riempire le forme necessarie alla propria sopravvivenza. In quanto straniero, è investito da una valanga di identità che lo sommergono e tra le quali dovrà pur affiorare per prendere un respiro, vomitate da chi in quel luogo non è straniero. Come K. ne Il Castello di Kafka, è il salvatore e lo sfruttato insieme, è guardato come colui che porterà il cambiamento e insieme come l’ingenuo che sogna sogna ma tanto non può far nulla.

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