Here to stay. “Come il Titanic” entra in carcere
Devo la mia prima visione di Riso Amaro – un capolavoro del cinema italiano, firmato da Giuseppe De Santis e uscito a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale – a Antar Mohamed Marincola.
Antar, infatti, ha firmato, insieme a Wu Ming 2, il romanzo Timira, pubblicato qualche tempo fa per Einaudi. Il libro prende le mosse dalla storia, assai complicata, di Timira Hassan, una donna italo-somala, e dunque sia italiana che somala, che altri non era che Isabella Marincola, la madre di Antar.
Tra le mille vicissitudini della sua vita, Isabella è stata anche attrice, comparendo tra le mondine di Riso Amaro. Ed ecco che il mio interesse di lettore si è spostato immediatamente sul film, seguendo una traccia insolita, quasi invisibile, e tuttavia già contenuta nel film, da sempre…
Ma non è di questa storia che voglio parlare.
In Riso Amaro, il personaggio del sergente Marco Galli è interpretato da Raf Vallone, e anche la storia di questo attore è un vero e proprio intreccio da romanzo epico: Vallone approda al cinema dopo aver giocato a calcio nel Torino, dopo aver fatto il giornalista e aver combattuto come partigiano durante la seconda guerra mondiale… Ma neanche questo mi interessa, ora; torniamo al sergente Marco Galli, che, nel film, pronuncia questa frase enigmatica: “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”.
Battuta sibillina, paradossale, forse anche priva di giustificazioni storiche, logiche, eppure una battuta che continua a dare la misura esatta della distanza, innanzitutto mentale, tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dal carcere. Non solo: forzando un po’ i termini della citazione, la frase del sergente Galli aiuta a capire come, fuori dal carcere, ci si continui a inventare idee di detenzione che sono tipiche, appunto, di chi non ha mai messo piede in una struttura di questo tipo. In buona o in cattiva fede, con le migliori o le peggiori intenzioni, non importa: i risultati, com’è noto, spesso coincidono (…e lastricano la via dell’inferno).
Così, nonostante io sia recentemente entrato in un carcere – per l’esattezza, in una casa circondariale, che è una struttura detentiva con finalità particolari – per parlare di un libro, Come il Titanic, e fare due chiacchiere con le persone che vi sono ‘ristrette’ (gergo tecnico, che mi tocca subito di imparare), ripensare alla vicenda non garantisce che io non stia inventando a mia volta un certo tipo di carcere, nella mia testa.
Questo ‘rischio’ si deve, in primo luogo, al fatto che, se vado a parlare di Come il Titanic, lo faccio all’interno di una serie di incontri organizzati nella biblioteca di questa casa circondariale – della quale non faccio il nome, per ovvi motivi giuridici – dalla direzione dell’istituto e, con la generosità di sempre, da Alessandro Ramberti di Fara editore.
La biblioteca in questione non è all’interno del carcere, ma rimane appena sulla soglia di questo microcosmo complesso. Nessuna vista, dunque, sulle celle (ma in fondo perché dovrei averla? sono forse un voyeur, un turista?), nessun rumore caratteristico della prigione, di quelli che mi sono stati descritti, poco tempo prima, da un amico che ha avuto un’esperienza di insegnamento scolastico nella stessa casa circondariale. Nessun clangore metallico di porte che si aprono e si chiudono, nel silenzio generale. Niente di prevedibile, insomma, per me che, tutto sommato, resto sulla soglia.
Come il Titanic, invece, entra. Entra per restare, per far parte della piccola ma nutrita biblioteca a disposizione delle persone ‘ristrette’. Ed entra subito anche nel vivo della discussione: bastano pochi minuti, nei quali riesco appena ad accennare ad alcuni elementi del libro. Parlo del processo di composizione del libro da parte dei fumettisti del gruppo Expris Comics – come partecipanti ‘insoliti’ alle prove dello spettacolo teatrale Il Violino del Titanic dei Cantieri Meticci – della metafora del Titanic e della storia di Amin e della sua zattera.
È sufficiente: il dibattito prende avvio in modo spontaneo, a tratti s’infiamma, e capisco solo in un secondo momento di aver portato all’attenzione dei presenti un tema, per così dire, ‘sensibile’. Eppure, anche così va bene: per quanto la casa circondariale abbia dei limiti precisi, le barriere nell’approcciare i temi che riguardano direttamente il vissuto di ciascuno sono assai permeabili. Quantomeno, sono permeabili in un modo diverso da quello in cui me l’ero immaginato, o inventato.
La discussione riguarda principalmente la metafora stessa del Titanic, che nel libro, come racconta Pietro Floridia nell’introduzione (che si può leggere qui sopra nell’anteprima issuu), è riferita tanto all’affondamento generale nella crisi economica europea, quanto ai frequenti affondamenti di barche nei viaggi di migrazione attraverso il Mediterraneo. ‘Affondamenti’, peraltro, oscurati dall’onnipresenza mediatica degli ‘sbarchi’, che non sono affatto l’unico versante della questione.
Ma la metafora del Titanic riguarda anche, e in modo determinante, l’affondamento individuale, o di coppia, di famiglia, di gruppo, che contribuisce talvolta a indurre opinioni, comportamenti e azioni che violano il patto sociale. È questo il discorso che passa sottopelle, nei quaranta minuti abbondanti di conversazione viva e attiva, alla quale la mia presentazione fornisce la miccia. È una conversazione che spesso manca al di fuori del carcere, in quei contesti dove Come il Titanic potrebbe calarsi più facilmente come esempio di narrazione ‘impegnata’, ‘interculturale’ o chissà che altro, e dove invece prevale il mutismo politicamente corretto o quello della contrapposizione sterile di altre posizioni ‘impegnate’ [1].
Qui invece il dibattito è acceso e fa emergere molti spunti notevoli, in larga parte indipendenti dalla condizione di ‘ristretti’ dei miei interlocutori. C’è chi fa notare, ad esempio, che c’è sempre bisogno di collegare il quadro delle migrazioni contemporanee al contesto, assai più vasto e duraturo, del colonialismo europeo. Si ricorda così una notizia dell’anno scorso, che è stata accennata soltanto in modo episodico dai media italiani, e della quale io mai e poi mai avrei pensato di arrivare a parlare, come l’intervento francese in Mali. Si discute, in altre parole, di come determinati comportamenti delle nazioni europee al di fuori dei loro confini comportino uno sfruttamento di risorse economiche e umane tale da generare una serie di conseguenze spesso inarrestabili.
C’è poi lo spazio per discutere apertamente la responsabilità morale e politica di chi ‘resta’ di fronte a chi ‘se ne va’, senza fare distinzioni preliminari, al riguardo, tra italiani e stranieri. È un dibattito fortemente radicato nell’attualità, in particolar modo per quanto concerne l’Italia, ancora nel pieno della crisi economica: le questioni che vengono poste sono così ampie e gravi che non si possono risolvere sul momento, ma riservano comunque spunti di riflessione molto appassionanti.
Un ultimo punto che desta alcune controversie riguarda la difficoltà di integrazione, e ancor più quella di salire sulla stessa scialuppa di salvataggio, per persone e comunità dalle appartenenze sociali e politiche diverse. La storia di Amin, però, fa presa proprio in questo contesto, perché è un esempio concreto di come si possa fare fronte a situazioni di emergenza ricorrendo a uno spirito solidale, di gruppo, coraggioso.
Intendiamoci: quello che sto descrivendo non è certamente un quadro idilliaco, da simposio platonico. Tuttavia, alcuni dei presenti hanno una o anche due lauree (…sorpresa? ma sì, devo dire per me lo è stato!) e questo non è cancellato dall’esperienza del giudizio e della pena. E c’è anche chi ha un profilo definibile molto rapidamente come ‘psichiatrico’ e che consente una diversa lucidità sugli argomenti trattati. C’è chi vuole approfittare veramente di uno spazio di riflessione e conversazione, sfruttando i momenti trascorsi al di fuori della propria cella.
Molti, moltissimi restano in silenzio, ma è un silenzio carico di possibilità – ultima della sorprese! – a dispetto della chiusura definitiva della battuta di Raf Vallone in Riso Amaro: “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato […]. E la prigione non salva nessuno”.
Cosa posso dire allora io, che resto sulla soglia, consapevole di averci capito molto, e aver confuso molte sorprese, invenzioni e, in una parola, fantasie? Posso dire che Come il Titanic, forse perché opera di fantasia, e di una fantasia moltiplicata, tra attori di teatro e fumettisti, è entrato.
Ha fatto il suo ingresso, dichiaratamente, per restare.
[1] ‘Impegnate’ e magari così snob da evitare un confronto a tutto campo: a tal proposito, non posso non ricordare un ottimo lavoro preparatorio di Antonella Selva sulla compartimentazione stagna cui spesso indulgono le cosiddette ‘politiche interculturali’ nostrane – percorso elaborato, poi, in questo video: