DJIBOUTI, Vecchi e nuovi incendi

Tutti i miei amici e colleghi dell’ospedale sono sconvolti. Alcuni di noi, io e i miei amici espatriati, ci chiedevamo quando sarebbe successo o anche come mai non era ancora successo. Il 24 maggio scorso, quindi poco più di 15 giorni fa rispetto a quando scrivo, un’esplosione in un ristorante del centro di Gibuti ha interrotto l’illusione di vivere in un Paese sicuro. Le notizie sono tuttora abbastanza confuse, in Italia se ne è solo accennato sul web: è successo alle 20.00 con il locale pieno. I morti sono i due attentatori, un ragazzo e una ragazza sui vent’anni, dai visi uguali a quelli di tanti altri ventenni che vivono nella baraccopoli. I feriti sono circa una dozzina, tutti occidentali. (Chissà perché si continua a usare il termine “occidentali” per indicare cittadini europei o statunitensi. Il mondo è tondo e ruota, quindi, in realtà, si è sempre più occidentali o orientali di qualcun altro, ma tant’è).
L’attentato però non è stato ancora rivendicato da nessuno. L’aria, già soffocante a causa dell’estate, sgocciola di ansia e inquietudine. In realtà, purtroppo, neanche Gibuti può sfuggire agli aspetti più negativi della globalizzazione. E i fuochi, di cui avevo cominciato a parlare ad alcuni di voi tre anni fa, hanno continuato a covare sotto la cenere. Ecco perché credo sia il caso di cominciare a scrivere anche della situazione politica: non si può dimenticare quanto essa incida sul destino delle persone che incontriamo, così come sul nostro.

Stefano Sanfilippo, Fuochi a Gibuti, inedito, 2012.

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